Agricoltura Green River Project Nigeria

Dove scorre il futuro dell’Africa

Scopriamo come l’acqua pulita e i pozzi realizzati da Eni e FAO in Nigeria e in Ghana possono rappresentare un punto di partenza per la rinascita delle comunità locali.

di Davide Perillo
09 aprile 2021
9 min di lettura
di Davide Perillo
09 aprile 2021
9 min di lettura

Green River Project: Eni e FAO in Nigeria

Il rubinetto è in plastica verde, con la leva arancione. Sporge dal muro di pietra, in fila accanto agli altri sette. Colori forti, vivi. Come quelli indossati dalle donne che vanno e vengono da quel muro, con una tanica in mano e spesso una testolina nera a spuntare dal kanga, il telo porta-bimbi. Anche Emily Ademola ha il figlio più piccolo appeso alla schiena mentre viene a riempire il suo innaffiatoio. “Abbiamo sofferto molto, prima. Camminavo 15 chilometri al giorno per cercare l’acqua. E i bambini a volte si ammalavano perché non potevano essere lavati”. Ma era prima, appunto. Adesso in questo sobborgo di Michika, stato di Adamawa, Nigeria del nordest, l’acqua pulita c’è. Qui, come a Bama, a Biu, a Damboa. Ci è arrivata con i pozzi scavati da Eni e da FAO. Non è una novità, il lavoro di Eni per la gente della Nigeria.

Il Green River Project, piano che promuove l’agricoltura evoluta e la sicurezza alimentare in questo paese, va avanti dal 1987. Ha portato nuove coltivazioni, istruzione e mezzi nel Delta del Niger. ”Abbiamo deciso di intervenire da queste parti per l’emergenza idrica del Lago Ciad, che dava acqua a tutta la zona ma è sempre più a secco”, ci dice Valeria Papponetti, advisor sui progetti di sostenibilità, in Nigeria dal 2017. L’emergenza genera un flusso enorme di spostamenti interni: quasi 4 milioni di persone sono emigrate verso altre zone del Paese. Molte nei sobborghi di Abuja, la capitale, dove sono nati interi quartieri di sfollati. E dove, tra i tanti problemi che si possono immaginare, si è acuito anche quello dell’acqua: già al limite per il milione e mezzo di abitanti della città, ora scarseggia. È per questo che si è pensato di intervenire qui. E di farlo con un’altra novità: la collaborazione con la FAO, l’agenzia dell’ONU che combatte la fame, attraverso una Partnership come prevede l’SDG 17 dell’Agenda 2030.

”Due realtà molto diverse, —racconta la Papponetti— che ragionano e lavorano in maniera differente, messe insieme da un obiettivo comune. Noi sappiamo scavare pozzi, la FAO è radicata nel territorio e ci aiuta nelle relazioni, nello scegliere le località di intervento”. Il risultato sono 22 pozzi d’acqua pulita, realizzati in altrettante località, cinque nel territorio di Abuja e 17 nel Nordest, negli stati di Adamaua, Yobe e Borno. ”Pescano da 100 a 140-150 metri sottoterra, - precisa la Papponetti - sono alimentati con il fotovoltaico e hanno serbatoi tra i 15 e i 50mila litri”. Abbastanza per servire una popolazione difficile da conteggiare (in Nigeria non c’è un censimento ufficiale e molti dei pozzi sono in luoghi dove c’è un viavai di sfollati), ma che si può stimare sulle 70mila persone. Gente che da quei pozzi non tira fuori solo acqua pulita, ma la forza per sostenere una comunità. Ogni intervento, di fatto, è un sistema idrico completo: c’è il pozzo, ma ci sono diversi punti di accesso all’acqua. Per l’uso domestico, le attività agricole, l’allevamento.

Tradotto in Obiettivi di Sviluppo, vuol dire una serie di effetti positivi: lotta alla povertà e alla fame (SDG 1 e 2), uguaglianza di genere (SDG 5) e salute (SDG 3). Ma anche accesso all’energia pulita (SDG 7), azione per il clima (SDG 13), partnership, appunto… Tutto legato alla spinta che i pozzi danno verso l’obiettivo numero 6, ovvero: l’acqua pulita. Nessuno di questi problemi è risolto, ma un passo alla volta, ci si muove. Per capire meglio la portata del progetto, però, occorre un’altra parola chiave: “Engagement: la popolazione va coinvolta, non solo aiutata”, dice la Papponetti: “Entriamo in situazioni di disagio forte, tra sfollati e povertà. Devi sempre spiegare bene chi sei e che cosa stai facendo. Formare le persone alle tecniche di manutenzione, all’uso dei filtri… L’aiuto della FAO è indispensabile anche in questo. Perché poi succede spesso che il pozzo sia gestito con l’aiuto di volontari”.  

Come capita a Goni Shariff, muratore di Chibok. Racconta con orgoglio di come il suo lavoro aiuti tutti: è lui a gestire il pozzo, accendere le pompe al mattino, spegnerle a sera, pulire i filtri. Yau Abdul Karim, invece, vive a Garin Mai Jalah, nello Yobe, 3 ore e mezza di macchina più a nord. Qui la terra è ancora più secca. Ma con il pozzo, assieme all’acqua che ha cambiato la vita degli allevatori, è arrivata pure la luce. E lui, allevatore e contadino con una cinquantina di mucche e un centinaio di polli, la sera può fare il suo terzo lavoro: barbiere, con bottega all’aperto sotto il led dell’impianto. Un lavoro nel lavoro, insomma. Più o meno come succede a Emily, che dal suo rubinetto verde e arancio non riceve solo l’acqua per cucinare o fare il bagno ai bimbi, ma anche per innaffiare il piccolo orto dietro casa e coltivare i pomodori che rivende al mercato. Fred Kafeero, rappresentante FAO in Nigeria, lo chiama micro coltivazione.

Tante famiglie ci vivono.  Ecco cosa vuol dire realizzare pozzi d’acqua in Africa. “L’agricoltura in Nigeria ha un potenziale enorme”, dice la Papponetti. Ma alla fine, quello che colpisce più dei numeri è la gente, i loro volti, le vite. “La cosa che mi è rimasta più impressa, da quando abbiamo iniziato il progetto, è stato vedere una bambina che avrà avuto sì e no quattro anni e camminava dietro la mamma, trascinandosi la sua tanica vuota. Era molto piccola. E la tanica era enorme. La faccia me la ricordo ancora”. E adesso? “Vedi persone stupite, perché hanno l’acqua e ce l’hanno gratis, cosa per niente scontata. Possono aprire il rubinetto e scende. Per loro è come un regalo che non si aspettavano”.

Acqua potabile anche in Ghana

Un regalo che altri tubi, in un altro angolo di Africa, hanno portato fino alla riva dell’Oceano. Anche in Ghana esiste un progetto simile. A Sanzule, zona di pescatori. Al largo ci sono i giacimenti dell’Offshore Cape Three Points, aperti quattro anni fa e destinati a produrre olio e dare gas al mercato locale. A terra, un pugno di villaggi, il più grande è Bakanta, rimasti fuori dalle forniture d’acqua. Messi insieme, fanno almeno 40mila persone. “Abbiamo parlato con le istituzioni e con la gente del posto, abbiamo capito che non era ancora in programma collegarli all’acquedotto pubblico, almeno non nei prossimi anni, e allora ci siamo accordati per portarla noi, l’acqua”, racconta Baluri Bukari, responsabile dei progetti sostenibili per Eni Ghana.

La fonte è una falda sotterranea profonda. Acqua sicura, più di quella che gli abitanti raccoglievano dai pozzi scavati a mano, o compravano da privati. Il resto lo fanno i filtri e la depurazione a osmosi inversa, i serbatoi e i tubi che la portano a quattro punti di distribuzione. Tutto, naturalmente, alimentato a energia pulita, via fotovoltaico. E tutto realizzato in tempi brevi: ”Sei mesi in totale, è stato un progetto molto rapido”, spiega Bukari. Ma di impatto profondo sulle vite della gente. “Risparmio molti soldi, perché non devo più comprare l’acqua da altre parti”, dice Elizabeth Ackah, 45 anni, pescatrice di Bakanta: “E le cose che cucino ora hanno un buon sapore”. Anche Stephen Owusu, più o meno della stessa età, carpentiere di Krisan, apprezza il fatto che “così il cibo è più buono e ho più tempo per me, perché non devo fare lunghe camminate per cercare l’acqua”. 

Kodzo Akluviah, pure lui pescatore, ma di Anwonlakrom, aggiunge che “l’acqua del pozzo non è salata come quella che usavamo prima”. “Da quando ho iniziato a usare quest’acqua non mi sono più ammalato”, racconta Francis Aboagye, 52 anni, pescatore anche lui, di Sanzule. “È vero, noi abbiamo a cuore gli SDG e sappiamo bene che assieme all’acqua, qui, l’altro obiettivo chiave è la salute”, conferma Bukari: “Quando abbiamo studiato la zona, abbiamo visto che tutti i report raccontavano di un alto tasso di malattie causate dall’acqua non potabile. Uno degli obiettivi era la riduzione di questi problemi”. Non solo con l’apertura dei pozzi, ma con una campagna di informazione sanitaria, fatta nei punti di ritrovo, come chiese e scuole, e porta a porta. “I dati dicono che l’incidenza delle malattie è già calata di parecchio”.

L'autore: Davide Perillo

Giornalista, attualmente si occupa di sostenibilità, temi sociali e Terzo Settore. Ha diretto per 13 anni la rivista Tracce. Membro della redazione del Meeting di Rimini (evento internazionale per il quale ha curato numerosi incontri), è stato caporedattore a Sette, magazine del Corriere della Sera, e ha seguito l’economia per L’Europeo. È laureato in Filosofia e ha un master in Giornalismo.