Il rubinetto è in plastica verde, con la leva arancione. Sporge dal muro di pietra, in fila accanto agli altri sette. Colori forti, vivi. Come quelli indossati dalle donne che vanno e vengono da quel muro, con una tanica in mano e spesso una testolina nera a spuntare dal kanga, il telo porta-bimbi. Anche Emily Ademola ha il figlio più piccolo appeso alla schiena mentre viene a riempire il suo innaffiatoio. “Abbiamo sofferto molto, prima. Camminavo 15 chilometri al giorno per cercare l’acqua. E i bambini a volte si ammalavano perché non potevano essere lavati”. Ma era prima, appunto. Adesso in questo sobborgo di Michika, stato di Adamawa, Nigeria del nordest, l’acqua pulita c’è. Qui, come a Bama, a Biu, a Damboa. Ci è arrivata con i pozzi scavati da Eni e da FAO. Non è una novità, il lavoro di Eni per la gente della Nigeria.
Il Green River Project, piano che promuove l’agricoltura evoluta e la sicurezza alimentare in questo paese, va avanti dal 1987. Ha portato nuove coltivazioni, istruzione e mezzi nel Delta del Niger. ”Abbiamo deciso di intervenire da queste parti per l’emergenza idrica del Lago Ciad, che dava acqua a tutta la zona ma è sempre più a secco”, ci dice Valeria Papponetti, advisor sui progetti di sostenibilità, in Nigeria dal 2017. L’emergenza genera un flusso enorme di spostamenti interni: quasi 4 milioni di persone sono emigrate verso altre zone del Paese. Molte nei sobborghi di Abuja, la capitale, dove sono nati interi quartieri di sfollati. E dove, tra i tanti problemi che si possono immaginare, si è acuito anche quello dell’acqua: già al limite per il milione e mezzo di abitanti della città, ora scarseggia. È per questo che si è pensato di intervenire qui. E di farlo con un’altra novità: la collaborazione con la FAO, l’agenzia dell’ONU che combatte la fame, attraverso una Partnership come prevede l’SDG 17 dell’Agenda 2030.
”Due realtà molto diverse, —racconta la Papponetti— che ragionano e lavorano in maniera differente, messe insieme da un obiettivo comune. Noi sappiamo scavare pozzi, la FAO è radicata nel territorio e ci aiuta nelle relazioni, nello scegliere le località di intervento”. Il risultato sono 22 pozzi d’acqua pulita, realizzati in altrettante località, cinque nel territorio di Abuja e 17 nel Nordest, negli stati di Adamaua, Yobe e Borno. ”Pescano da 100 a 140-150 metri sottoterra, - precisa la Papponetti - sono alimentati con il fotovoltaico e hanno serbatoi tra i 15 e i 50mila litri”. Abbastanza per servire una popolazione difficile da conteggiare (in Nigeria non c’è un censimento ufficiale e molti dei pozzi sono in luoghi dove c’è un viavai di sfollati), ma che si può stimare sulle 70mila persone. Gente che da quei pozzi non tira fuori solo acqua pulita, ma la forza per sostenere una comunità. Ogni intervento, di fatto, è un sistema idrico completo: c’è il pozzo, ma ci sono diversi punti di accesso all’acqua. Per l’uso domestico, le attività agricole, l’allevamento.