La riapertura della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, simbolo de L’Aquila coinvolto nel sisma del 2009, ha rappresentato un esempio di collaborazione tra Pubblica Amministrazione, Soprintendenza, Università e impresa per restituire agli abitanti il loro storico punto di ritrovo. Nel percorso di progettazione, coordinamento della sicurezza e direzione dei lavori per la ricostruzione, Eni ha messo a disposizione le proprie competenze tecniche oltre che gestionali. Si possono incontrare altri importanti cantieri in cui sono stati impiegati il know-how interno e le tecnologie dei laboratori di ricerca Eni per il recupero del patrimonio architettonico. Partiamo per un avventuroso viaggio nel tempo tra piazze e musei italiani.
Siamo a Milano, è il 2002 e la Veneranda Fabbrica del Duomo vuole capire se mantenere le stuccature applicate negli anni Settanta durante l’ultimo restauro della facciata del Duomo. Negli anni le stuccature hanno presentando diversi problemi di conservazione cambiando colore rispetto al substrato marmoreo e staccandosi in alcuni punti. È necessario osservare, ma non solo con lo sguardo. È Eni, grazie agli occhi attenti della chimico-fisica, che può dare una risposta. La ricostruzione grafica tridimensionale di oggetti e superfici tramite la fotogrammetria digitale è necessaria per avere la mappa su cui collocare i risultati delle analisidiagnostiche e delle operazioni di restauro. Il rilievo continua con la termocamera e alla mappa grafica, si sovrappone la visuale termica per individuare, tra le stuccature, quelle con le superfici di distacco.
Un’altra tecnica non distruttiva arriva in aiuto: uno spettrometro di fluorescenza dei raggi X punta la superficie e la analizza chimicamente. L’ambiente particolarmente aggressivo che circonda il Duomo accelera i fenomeni di degrado tipici di una roccia carbonatica intaccando con croste nere e portando alla decoesione alcuni preziosi motivi del marmo di Candoglia. Con questo strumento si scoprono residui di trattamenti di patinatura superficiale. Alcuni elementi chimici, come lo zolfo, sono caratteristici di fenomeni di degrado mentre altri, come il titanio, indicano trattamenti superficiali. Inizia la pulitura con la tecnica chiamata Jos, una variante di idrosabbiatura che rimuove la crosta di degrado per azione meccanica. Si può quindi approfittare per prelevare micro campioni da interrogare in laboratorio. Sotto il microscopio elettronico a scansione accoppiato a microanalisi, gli stucchi rivelano informazioni sia morfologiche che composizionali. A questo punto si può scegliere una pittura chimicamente affine e i ricercatori possono tornare in piazza Duomo muniti dell’idonea velatura con cui proteggere le stuccature da mantenere.
Riprendiamo il nostro viaggio per ficcanasare nelle indagini utili a restituire a un altro monumento storico il proprio linguaggio originale.
A Roma tra il 1997 e il 1999 c’è un gran fermento per il Giubileo del 2000. La facciata in travertino della Basilica di San Pietro si sta facendo bella ed Eni, unico partner scientifico e tecnologico della Fabbrica di San Pietro, sta monitorando i parametri meteorologici e gli inquinanti presenti nell’atmosfera, cause principali del degrado del monumento. L’annerita facciata sta per essere fotografata in tutti i suoi profili. Al rilievo fotogrammetrico per l’ottenimento del modello tridimensionale, segue un’osservazione più profonda per studiare la presenza di lesioni, fratture, cavità nascoste al suo interno con il georadar. Anche in questo caso la termocamera misura la temperatura per scovare le zone di distacco. Le indagini non distruttive del laboratorio mobile vanno però integrate per completare la diagnosi della facciata e per questo è necessario “pizzicarla”, giusto un pochino.
Vengono prelevati piccoli frammenti e portati nei laboratori per studiare con strumenti non portatili lo stato superficiale della pietra e le coloriture. Ciò è necessario per selezionare la tecnica di pulitura da adottare. I frammenti vengono inglobati in resina, sezionati e lucidati per osservarli da vicino al microscopio ottico e ancor più da vicino col microscopio elettronico. Il loro profilo mostra dettagliatamente la morfologia della crosta di alterazione e della patina colorata poste sopra il candido travertino.
Ora si attiva una vista speciale per capire la natura di questi strati; viene asportata meccanicamente la superficie di ciascun frammento e le polveri così ottenute possono essere analizzate con la diffrazione ai raggi X. In questo modo vengono identificati i minerali della crosta scura che macchia le zone della facciata più protette dalle piogge. Ma tra il travertino e questa crosta superficiale di particolato carbonioso inglobato nel gesso, le lenti dei microscopi avevano individuato un altro livello di compatta patina colorata, che è composta prevalentemente da ossalati di calcio. Da dove viene? Dalla degradazione biologica del travertino oppure dalla presenza di intonaci colorati, spesso ottenuti miscelando prodotti organici naturali (caseina, colle animali, gomma arabica…), voluti dal Maderno e successivamente alterati? Il progressivo incrocio dei dati di laboratorio con le informazioni di archivio, fa convergere l’ipotesi di un’origine artificiale delle coloriture. La determinazione di componenti ricche in silicio, alluminio, ferro, magnesio e alcali indicano l’uso di terre coloranti presenti in proporzioni diverse in corrispondenza delle differenti tinte. Non solo, il travertino ricoperto da tali patine, risulta pressoché inalterato suggerendo un’azione protettiva nei confronti dello strato lapideo. Meglio non rimuoverle! Il lavoro di pulitura può partire con la tecnologia Jos preservando, ove possibile, lo strato di coloritura a protezione.
Soddisfatti del risultato, si parte per il 1981 a visitare il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze dove sono conservati i pannelli in bronzo originali della Porta del Paradiso, portati lì perché danneggiati dalla disastrosa alluvione del novembre 1966. La collaborazione si stringe tra l’opificio delle pietre dure di Firenze e l’allora Istituto Guido Donegani di Novara (oggi Centro di Ricerche sulle Energie Rinnovabili e Ambiente) per condurre studi sullo stato di conservazione e sulla tecnica di esecuzione dell’opera. Con indagini non distruttive o microinvasive su piccole porzioni, si ottiene la composizione della superficie delle formelle accarezzandola con un impercettibile cannone ionico che si fa spazio tra i prodotti di corrosione e le particelle di pulviscolo atmosferico. Sotto questi strati ancor meno spessi di un filo di ragnatela, si arriva allo strato aureo. Nei tempi antichi la doratura poteva avvenire depositando strati sottili di oro solido in forma di laminesulla superficie del manufatto metallico resa ruvida per facilitare l’adesione dopo un’operazione di riscaldamento. Di rado l’oro veniva applicato in forma fusa a causa della difficoltà e degli sprechi legati all’operazione.
Più diffusa era la tecnica dell’amalgama in cui oro e mercurio venivano blandamente riscaldati a formare una lega lavorabile dall’artista anche per effettuare precise dorature parziali. Una volta depositata, l’amalgama veniva riscaldata a una temperatura idonea alla volatilizzazione del mercurio facendo aderire l’oro al substrato metallico. Come distinguere una tecnica di doratura dall’altra? La spettroscopia Auger ci viene in aiuto.
Con questa analisi si ottiene la composizione chimica dei primi strati atomici della superficie del materiale individuando un elemento anche quando è presente in piccolissime quantità. Infatti ecco scovato il caratteristico segnale del mercurio che è rimasto in tracce come residuo dell’evaporazione! Tuttavia, non mancano le obiezioni… l’elemento potrebbe avere un’origine diversa, non per forza attribuibile al processo di doratura. Spesso infatti è presente come impurezza nell’oro nativo oppure come contaminante ambientale. Ma la chimico-fisica va oltre e nota che il mercurio è concentrato nella parte superiore dello strato aureo in accordo con quanto ci si aspetterebbe se fosse un residuo dell’evaporazione confermando l’impiego dell’amalgama. Inoltre, microscopia elettronica accoppiata a microanalisi evidenziano non solo una struttura spugnosa del metallo nobile, formata dai vapori di mercurio che hanno trovato difficoltà ad uscire dall’amalgama, ma anche una lieve diffusione del bronzo nell’oro dovuto alla stessa breve e blanda operazione di riscaldamento.
Fugato ogni dubbio sulla tecnica di esecuzione dell’opera, è arrivato il momento di rientrare nei laboratori del 2019. Ma… qualcosa non ha funzionato? Cosa ci fa ancora un piccolo frammento della Porta del Paradiso dentro la camera del microscopio elettronico? Lo strumento è recentissimo, quindi nessun dubbio sull’epoca. L’investigazione continua e con le nuove tecniche, si stanno caratterizzando alcune sezioni del campione per stabilire il grado di diffusione del rame di cui è composto il manufatto nell’oro posto sulla superficie. Grazie al coefficiente di diffusione dei metalli e ai 565 anni ben portati dell’opera, si può definire la temperatura di cottura dell’amalgama tra 250 e 350 °C. Un’altra informazione utile alle indagini.
Ora un po’ di ristoro dopo un viaggio tra arte, storia e fasci elettronici per poi ripartire all’inseguimento di chi non si è ancora fermato!
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