Il lungo percorso di ricerca che ci ha portati al sistema di stoccaggio energetico più efficiente ad oggi disponibile
di
Luca Longo
10 min di lettura
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La tecnologia indispensabile per avere sempre con noi i dispositivi elettronici che vogliamo, nasce da tre invenzioni da premio Nobel. Non abbiamo scampo, dobbiamo arrenderci all’evidenza: siamo circondati dall’elettricità, viviamo completamente immersi in un mondo pieno di dispositivi che funzionano solo grazie all’energia elettrica.
Sembra tutto abbastanza semplice quando pensiamo ai nostri elettrodomestici: hanno un cavo con una spina collegata a una presa nel muro da cui possiamo prendere tutta la corrente elettrica necessaria per farli funzionare. Quando, invece, si tratta di smartphone, tablet, notebook, monopattini o auto elettriche, viviamo nella paura costante che finisca la batteria e che ci piantino in mezzo alla strada o a metà di una chat sui nostri social preferiti.
Per questo, è diventato sempre più importante poter disporre di batterie –più potenti e più piccole– in grado di accumulare elettricità e fornircene a sufficienza.
Fino a qualche tempo fa, non sapevamo di dover ringraziare John B. Goodenough, M. Stanley Whittingham e Akira Yoshino per aver migliorato la nostra vita rendendo meno frequente e meno angosciosa la nostra continua ricerca di una presa elettrica. Evidentemente, l’hanno pensata così anche i membri della Reale Accademia delle Scienze svedese, che li hanno premiati col Nobel per la chimica 2019.
Ciascuno dei soggetti suindicati, infatti, ha dato un contributo decisivo per lo sviluppo delle batterie al litio che conosciamo. Anche se sono state ideate mezzo secolo fa, tra tutte le batterie, restano ancora oggi quelle più efficienti e che possiamo trovare ovunque: da quelle quasi microscopiche nelle nostre orecchie se usiamo auricolari wireless, a quelle molto più ingombranti, sotto il tappetino delle auto elettriche.
Le prime ricerche per trovare batterie ricaricabili più efficienti e più affidabili di quelle tradizionali a piombo/acido solforico, nichel/cadmio e nichel/metallo-idruro, iniziano negli anni ’70 del secolo scorso spinte dalla prima crisi petrolifera. La ricerca di fonti e vettori energetici alternativi ha portato a individuare il litio come un possibile candidato per le batterie del futuro. Il litio, infatti, dopo l’Idrogeno e l’elio, è l’elemento più piccolo della Tavola di Mendeleev, ed è anche l’atomo più piccolo in assoluto che troviamo allo stato solido. Inoltre, può cedere facilmente uno dei suoi tre elettroni diventando uno ione positivo. Ma non basta: questo minuscolo ione positivo può inserirsi all’interno di materiali utilizzabili come elettrodi di una batteria e può muoversi trasportando carica positiva fra un elettrodo e l’altro.
Ma vediamo come è fatta e come funziona una batteria. È composta da due elettrodi (l’anodo collegato al polo negativo e il catodo collegato al polo positivo) separati da una membrana semipermeabile che lascia passare solo alcuni ioni trattenendo –o di qua o di là– tutti gli altri componenti della batteria. Quando vogliamo caricarla, colleghiamo i due poli alla nostra presa elettrica (grazie a un apposito trasformatore che porta la corrente alternata a 220V fino a corrente continua al giusto voltaggio). In questo modo, riusciamo a produrre una reazione chimica, detta ossidazione, con la quale strappiamo alcuni elettroni alle molecole presenti sul catodo e li spingiamo lungo i cavi elettrici fino al polo negativo. Qui avviene una reazione elettrochimica opposta, detta di riduzione, che permette a ciascun elettrone di raggiungere uno ione positivo (fra poco spiegheremo da dove salta fuori), trasformandolo in un atomo neutro. Quest’ultimo si può così depositare sull’anodo stesso. Intanto, all’interno della cella, un uguale numero di ioni positivi –cui è stato strappato un elettrone– attraversa la barriera semipermeabile che separa il catodo dall’anodo accumulandosi su quest’ultimo e catturando gli elettroni che vi sono stati portati grazie al circuito elettrico esterno. In questo modo, tutte le cariche elettriche restano sempre bilanciate.
Quando, invece, vogliamo tirare fuori energia dalla nostra batteria, ci basta fare funzionare tutto al contrario: facciamo avvenire una reazione di ossidazione sul polo negativo estraendo tutti gli elettroni che prima avevamo accumulato e li usiamo per produrre corrente elettrica. Questa corrente di elettroni passa attraverso il dispositivo utilizzatore –facendolo funzionare– e poi torna al polo positivo della batteria dove gli elettroni vengono accolti dagli ioni positivi che intanto sono tornati nel catodo attraverso la barriera semipermeabile per ricongiungersi ciascuno con un elettrone e tornare –grazie ad una reazione di riduzione– atomi neutri e stabili.
Ricomincia così il ciclo di carica e scarica fino a quando troviamo una presa per ricaricarla.
Nelle batterie al litio, invece? Nella fase di scarica della batteria, gli elettroni vengono portati via dall’elettrodo positivo, fatto di ossido di litio e cobalto. Intanto, ioni di litio carichi positivamente e accumulati sull’anodo (fatto di carbonio) si staccano e si muovono all’interno della batteria passando attraverso la membrana, arrivando al catodo e rimangono qui sotto forma di litio legato all’ossido di cobalto in attesa che noi carichiamo la batteria. Quando possiamo finalmente collegare la batteria a una presa di corrente, stacchiamo il litio dall’ossido di cobalto del catodo e lo portiamo attraverso la membrana semipermeabile fino all’anodo dove si lega di nuovo con il carbonio.
E’ stato proprio Stanley Whittingham, assunto da una oil company per lavorare sulle batterie durante la crisi petrolifera, a pensare di usare il litio per la facilità con cui dona gli elettroni. Anzi, in realtà, è lui stesso ad ammettere che ci è arrivato per caso mentre stava studiando nuovi materiali per superconduttori a base di disolfuro di tantalio.
Fra il 1972 ed il 1976, Whittingham inventa una batteria dove il polo negativo è fatto di litio metallico. Mentre per il polo positivo sceglie disolfuro di titanio, un composto che all’interno del suo reticolo cristallino può ospitare comodamente proprio gli ioni litio come il disolfuro di tantalio ma che risulta molto più leggero e soprattutto… molto meno costoso.
Questo è lo schema della batteria di Whittingham tratto (come gli schemi successivi) dal sito dell’Accademia Reale delle Scienze svedese.
A questo punto, la storia delle batterie al litio rallenta per due motivi: il primo è che la crisi petrolifera termina, il secondo motivo è più… tecnico. Infatti, durante i cicli di ricarica, gli atomi di litio che tornano all’anodo non hanno nessun motivo per tornare esattamente nello stesso posto occupato prima: gli basta depositarsi sulla sua superficie esterna.
Gli atomi successivi, ancora più pigri, invece di arrivare fino all’anodo si depositano sui primi e poi quelli che vengono dopo si attaccano sui precedenti fino a creare dei filamenti metallici (che i ricercatori chiamano vibrisse di gatto). Quando queste vibrisse, diventando sempre più lunghe, arrivano a toccare il catodo, la batteria va in cortocircuito e il litio metallico… esplode.
Le ricerche di Whittingham vengono interrotte quando la locale stazione dei pompieri –dopo essere stata chiamata decine di volte a fermare gli incendi– minaccia il laboratorio di addebitare le spese per gli speciali estinguenti necessari per spegnere il litio metallico.
Ecco che nella nostra storia entra in scena John B. Goodenough. Pensate che da bambino aveva problemi ad imparare a leggere, per questo decise di concentrarsi sui numeri… e da qui a diventare professore di fisica a Oxford il passo è stato per lui breve.
Con il suo gruppo di ricerca, Goodenough riprende le ricerche abbandonate da Whittingham e nel 1980 sostituisce il disolfuro di titanio nel catodo con l’ossido di cobalto. In questo modo, non solo è possibile costruire batterie nel loro stato scarico e poi caricarle, ma soprattutto aumenta la differenza di potenziale fra i due poli della batteria, raddoppiandola dai 2 Volt del modello di Whittingham a ben 4 Volt.
Lo scenario cambia ancora, il prezzo del petrolio torna a diminuire e in occidente cala anche l’interesse per l’elettricità. Dall’altro lato del pianeta, però, in quegli stessi anni sta avvenendo una rivoluzione elettronica. Le industrie giapponesi si stanno scatenando nella produzione dei primi dispositivi a transistor: personal computer portatili che pesano solo 4 o 5 kg, videocamere, telefoni senza fili e walkman. Per questo, hanno bisogno di batterie leggere e potenti che alimentino i dispositivi di cui è invaso il mercato mondiale.
Ed è questo il momento di Akira Yoshino, che alla Asahi Kasei Corporation, prova a modificare il polo negativo della batteria di Whittingham e Goodenough sostituendo il litio metallico dell’anodo prima con grafite, che però si danneggia dopo pochi cicli di carica e scarica, e infine –nel 1986– con carbon coke, un sottoprodotto del petrolio.
Ed è così che arriva il momento giusto per avviare la produzione di massa: le batterie al litio negli ultimi trent’anni hanno praticamente eliminato ogni altra precedente tecnologia, con l’eccezione delle batterie piombo/acido solforico che, da oltre un secolo, trovano spazio accanto al motorino di avviamento sotto il cofano delle auto a benzina e diesel.
Termina qui la storia dei “tre moschettieri” delle batterie al litio e del premio Nobel conquistato.
Ma la storia delle batterie è ancora ben lontana dalla conclusione. Infatti –mezzo secolo dopo la loro scoperta– le moderne batterie al litio sono in grado di accumulare ben 2,5 MJ di energia per ogni Kg di peso, ma non sono ancora in grado di competere efficacemente con il diesel e la benzina, che in un solo Kg riescono a racchiudere 54 MJ, o con l’idrogeno, che arriva a 143 MJ/Kg.
Chimico industriale specializzato in chimica teorica. È stato ricercatore per 30 anni prima di passare alla comunicazione scientifica di Eni.
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