Energia, sanità, istruzione e agricoltura: elementi essenziali per la crescita di una comunità, resi possibili con l’aiuto di Eni in Angola e in Congo.
di
Davide Perillo
30 marzo 2021
14 min di lettura
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Davide Perillo
30 marzo 2021
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Ve lo aspettavate un impatto del genere? "Nella testa forse sì: quando il progetto è stato disegnato, c’erano idee e obiettivi, ma era tutto sulla carta. Vedere poi che le cose a mano a mano sono diventate reali, è stato entusiasmante". Ana Patricio, coordinatrice Eni dei programmi di sostenibilità in Angola, racconta di scavi e pozzi. Il che è normale, per una compagnia energetica. Stavolta però si tratta di acqua. Qualcosa di cui c’è parecchio bisogno, in gran parte dell’Africa. E che soprattutto in certe zone, come il sudovest dell’ex colonia portoghese, è un’emergenza acuta, una zavorra su tanti aspetti della vita delle persone.
Nell’elenco dei Sustainable Development Goals, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ONU dell’Agenda 2030, l’SDG numero 6, quello che auspica l’accesso all’acqua potabile, è uno dei più trasversali. C’entra con tutto: salute e agricoltura, educazione e lotta alla povertà… E da queste parti si vede benissimo. Ti guardi intorno, e capisci subito perché vale la pena partire da qui, per un piccolo viaggio in grado di far capire molte cose. Sull’Africa, sull’acqua e su tanto altro.
In Angola, Eni lavora dal 2017 a un Progetto Sociale Integrato: affronta i bisogni delle persone su piani diversi, ma intrecciati. L’agricoltura, anzitutto, con più di mille contadini coinvolti e 28 campi agricoli, grazie ai quali si insegna a gestire anche la maggiore disponibilità di acqua. In una zona particolarmente arida, dove prima per l’assenza di irrigazione l’agricoltura non era sviluppata. Ora la possibilità di coltivare gombi, cetrioli, carote, melanzane, arricchisce e diversifica l’alimentazione. Ma il progetto integra anche scuole e centri medici, arrivati in questa zona assieme a un’altra fonte di vita: l’energia.
"Supportare un Paese verso gli Obiettivi di Sviluppo è parte del nostro modo di fare business", spiega Ana: "Vediamo i campi che hanno più bisogno di aiuto, consideriamo gli SDGs e facciamo una selezione dei progetti che ci sembrano più incisivi per le persone". La novità, in questo caso, è che gli aiuti vanno verso una zona dove Eni non opera. "Ma abbiamo visto che gli abitanti di lì avevano un grande bisogno e nessuno poteva dare una mano". Lì è una zona a cavallo tra due province, Namibe e Huíla, con due comuni –Bibala e Gambos– e nove comunità coinvolte. Vuol dire 60mila persone. "Finora abbiamo completato 8 impianti fotovoltaici e altrettanti pozzi d’acqua". Scavano sui cento metri di profondità, con pompe alimentate dall’energia pulita. E a beneficiarne "è tutto un sistema: le scuole, gli allevatori, i centri salute". Fai un intervento azzeccato e rispondi a una corona intera di Obiettivi, di SDGs. "Soprattutto sulla sanità c’è un grande lavoro di educazione: abbiamo gente che va nelle case e nelle scuole per promuoverla. E abbiamo iniziato un programma per prevenire la pandemia".
A dare una mano è una ONG locale: Adpp, Ajuda de Desenvolvimento de Povo para Povo, la gente per la gente. “Se un progetto consistesse solo nell’installazione di un pannello o di un pozzo, non ne avremmo bisogno", dice Ana: "Ma si tratta di entrare in contatto con le persone, far capire certe modalità di azione, giorno per giorno. Un aiuto di quel tipo è indispensabile". Ce n’è abbastanza per cambiare in meglio tante vite. Per dare acqua al centro medico di Taka, che ha fatto un salto in avanti enorme. O alla scuola di Kamupapa, dove prima gli insegnanti portavano le taniche da casa. Ma il beneficio è capillare. "Abbiamo installato 900 tippy-tap, dei sistemi molto semplici per lavarsi le mani senza sprecare acqua", spiega ancora Ana: "È una tanica collegata a un pedale: schiacci, si inclina e fa scendere un rivolo". Un gesto semplice che fa una grande differenza, anche per proteggersi dal Covid.
Ma l’impatto è ancora più potente, se si pensa che con i pozzi arriva pure la luce con il fotovoltaico. Significa la possibilità di studiare la sera, di tenere in frigo medicine e vaccini, o anche di incontrarsi quando cala il buio. "I pozzi sono diventati un luogo di ritrovo, perché prima la luce non c’era. E immagini cosa vuol dire, semplicemente, poter accendere una tv. C’è gente che prima non sapeva nemmeno cosa succedeva nel Paese. Ora è possibile". Senza contare un altro effetto sostenibile che l’acqua porta con sé. Nell’elenco degli SDGs, si traduce in due numeri: 5 e 10, parità di genere e riduzione delle disuguaglianze. Per le donne è una rivoluzione: sono loro a impiegare ore e fatica per andare ai pozzi, sono loro a lavorare in casa a lume di candela o con le lampade. "Ora hanno i led. E cucinano cose che prima non mangiava nessuno, qui, perché non si coltivavano. È un cambiamento importantissimo", sottolinea Ana. Ma che effetto fa a lei, personalmente? "Una sorpresa. Io lavoro per l’Eni, che è una multinazionale. Ma sono angolana, e sono una donna. Mi sento felice nel vedere un esito così imponente sulle vite di tante donne del mio Paese. Lì non avevano molte chance. Ora sì".
È anche per questo che quando le chiedi di mettere in ordine di importanza gli Obiettivi da raggiungere, e di indicare in che posizione della lista piazzerebbe l’SDG numero 6, Ana risponde così: "Ogni SDG è fondamentale, non possiamo dire che uno sia più importante degli altri. Ma se parliamo di comunità, l’acqua è la base di tutto. Se non hai accesso all’energia, in qualche modo –con moltissima fatica– puoi anche sopravvivere. Senza l’acqua, no. È vita". E unisce, anche dove non te lo aspetti. Qualche settimana fa, Maria Florida Joaquim, 41 anni, abitante di Kapangonbe, a chi le chiedeva come il progetto-acqua le avesse cambiato prospettiva, ha risposto: "Ho imparato a coltivare piante nuove, a creare vivai. Ma non avevo mai visto gente di tribù diverse, come i Mucubal e i Mumuilas, fare le cose insieme. Ora succede. Lavoriamo fianco a fianco". "È vero, ed è uno degli aspetti più belli", osserva Ana: "Il progetto ha permesso di rafforzare i legami. Sanno che possono collaborare". Qui funziona, insomma. Può essere un modello da portare altrove? Ana Patricio ci pensa solo un attimo. "Certo, può essere. Stiamo lavorando in situazioni diverse e con persone molto lontane tra loro, perché si tratta di zone molto estese. È difficile. Ma se ce la fai da una parte, può funzionare pure altrove. Il futuro è aperto".
Parole simili a quelle che senti in un’altra lingua, da un Paese che sta a più nord: il Congo, seconda tappa del viaggio. "Per noi, questo progetto è una liberazione", racconta monsieur Jacques Mbemba-Mayela. E basta vederlo in faccia per capire che non è retorica: è il suo modo per dire che la vita è cambiata davvero. La sua, come quella degli altri abitanti di Hinda. Zona di contadini e bestiame. Terra asciutta e dura da coltivare, dove la stagione delle piogge a volte dura mesi. Ma l’acqua da bere non c’è. O meglio, era lontana chilometri. In ogni momento vedevi in giro "donne che andavano e venivano con la loro tanica in testa". Ora è qui, a portata di mano. "E l’acqua è vita". I rubinetti si sono aperti a dicembre. È l’ultima tappa –per ora– del Progetto Hinda, che ha permesso a Eni di scavare trenta pozzi d’acqua potabile in 22 villaggi di questa zona, a sudovest del Paese e a pochi chilometri dall’oceano. Posti piccoli, come Tchitondi, Dionga, Bondi. Pugni di case ricchi di vita e umanità. Hinda è un progetto ampio e una storia che viene da lontano. Il primo memorandum di intesa tra Eni e governo è del 2011, ma il cane a sei zampe è presente nel Paese dal 1968.
Hinda attraversa vari settori: salute, agricoltura, educazione. Più, appunto, l’acqua. "Il progetto è davvero integrato", spiega Yvon Nkouka-Dienita, responsabile della divisione iniziative comunitarie e territoriali di Eni Congo: "I pozzi danno acqua pulita a 25mila persone. Ma l’impatto è su tanti aspetti della loro vita". Anche per questo è importante capire come ci si è arrivati, a quei pozzi. Eni da queste parti ha parecchi impianti, offshore e onshore: prima di Nené Marine, al largo, si sono aperti i blocchi di M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Lavorare per aiutare la popolazione è parte degli accordi, come di consueto. Il Progetto Hinda è partito con la ristrutturazione delle scuole e la formazione di agricoltori. Poi ha iniziato ad affrontare il problema salute e l’emergenza idrica. L’azienda ha aperto un canale con il comitato tecnico statale sull’acqua.
"Abbiamo scelto insieme i villaggi dove intervenire e valutato la sostenibilità", spiega Nkouka-Dienita. E dato che la prima condizione per rendere un progetto davvero sostenibile "è che i beneficiari lo considerino loro", il passo seguente è stato sollecitare i capi villaggio e la popolazione. "Nella strategia sono coinvolti tutti: il terreno lo danno loro, è il loro contributo. Ed è importante che se ne rendano conto". Per questo, prima di iniziare gli scavi "abbiamo chiesto ad Avsi, una ONG italiana che collabora con noi, di andare sul posto a fare un lavoro di sensibilizzazione: spiegare cosa sarebbe successo, che impatto poteva avere sulle loro vite". E aiutare a capire che la gestione del pozzo, a regime, sarebbe toccata a loro, agli abitanti: "In ogni villaggio hanno eletto un comité de gestion: decide sugli accessi, gli orari, la manutenzione". I pozzi anche qui pescano a un centinaio di metri, con pompe a energia fotovoltaica. Ognuno ha richiesto, in media, tre mesi di lavoro. E il progetto non ha rallentato neanche con l’arrivo del Covid: "Ci sono stati problemi, ma siamo andati avanti: nel 2020 abbiamo consegnato 5 pozzi, tre nuovi e due riabilitati". È per questo che senti gli abitanti di Hinda come Ruth, più o meno vent’anni e i capelli lunghi e lisci, dire "aspettavamo questo cambiamento da anni".
Prima la gente doveva fare anche venti chilometri per comprare l’acqua, ora la trova a trecento metri da casa. "Pulita, sicura, senza rischi di malattie", dice Nkouka-Dienita: "Possono bere, cucinare, lavarsi. E risparmiano tempo, perché molti prima di andare al lavoro dovevano mettere in preventivo una o due ore da dedicare al rifornimento d’acqua". È un guadagno enorme, anche in una fetta di mondo dove il tempo sembra scorrere più lento che altrove. E quando Edith Lucie Makosso, una degli amministratori locali, accanto al serbatoio piazzato davanti alla scuola del villaggio ricorda che "questo pozzo non è solo per chi viene qui, ma per l’intera comunità", coglie un altro punto decisivo. "I pozzi hanno un impatto su tutte le strutture sociali", spiega Nkouka-Dienita: "I nostri tubi raggiungono il Centro salute, quando c’è. E le scuole, che qui hanno quasi sempre una mensa. I bambini fanno anche 5 o 6 chilometri per arrivare in classe, e non possono tornare a casa a pranzo. Ma la mensa ha bisogno di acqua pulita per preparare i pasti…". È di nuovo l’interazione, il legame stretto tra salute, istruzione ed energia pulita. Oppure, in chiave sostenibilità, tra Obiettivi: SDGs 3, 4 e 7, più tutte le ricadute possibili.
C’è un altro effetto, però. Più sottile, ma altrettanto importante, quando si tratta di fare la differenza. Tanti altri hanno scavato pozzi in questa fetta di Africa: nessuno, o quasi, ha scelto di affidare la gestione alla popolazione. "Ho visto casi in cui si scava, si trova l’acqua, si apre: ma dopo un po’ va tutto in rovina, perché non c’è nessun responsabile", dice Nkouka-Dienita. Qui, ci sono. È il comitato di gestione, appunto. Che decide anche le quote del contributo chiesto agli abitanti. Cifre quasi simboliche: siamo intorno a un euro al mese ogni famiglia. "Ma è importante che non sia tutto gratis: serve a pagare la piccola manutenzione, ma soprattutto a responsabilizzare gli individui". Un modello che ha spinto Unicef a indicare i pozzi del Progetto Hinda tra le best practices locali di sviluppo sostenibile durante un convegno di qualche mese fa a Brazzaville. E che fa capire meglio quanto sia importante un altro fattore, legato all’acqua: la partnership. È un altro SDG delle Nazioni Unite, il numero 17. Lavorare assieme ad altri che mettono quello che tu non puoi mettere, e viceversa. "Il nostro lavoro non è fare pozzi d’acqua: noi restiamo una energy company", dice Nkouka-Dienita. "Ma l’attenzione per la gente non sta solo nell’affiancare al business gli interventi sociali: passa pure dal lavorare con professionisti che ti aiutano a realizzarli. Da Avsi, in questo caso, alle aziende che hanno collaborato".
A tutti quelli che ora permettono a Fidele Gentil Boungou, di Dionga, di dire semplicemente "siamo molto sollevati, perché l’acqua è fonte di vita". E allo stesso Nkouka-Dienita di raccontare quanto vale per lui vedere realizzarsi un progetto come questo: "Sono felice. Come dipendente Eni, e come congolese". Pausa. "Ma se permette, vorrei spiegarle perché". Prego. "Io lavoro in questa azienda dal 2006, ma sono entrato come medico. Ho fatto dieci anni occupandomi di salute nelle attività sostenibili. Poi mi hanno chiesto di diventare responsabile progetti. Ho cambiato la mia vita per aiutare a cambiare quella della mia gente". Ma non lo facevo già da medico? "Mi fa più contento inaugurare un pozzo che rende felici duemila persone, che curarne una. O aiutare una scuola con mille alunni, che guardare un’ecografia. Anche la salute in Africa è importantissima, certo. Ma quando vengo da queste parti e vedo i bimbi che vanno a scuola, sono più contento io".
Giornalista, attualmente si occupa di sostenibilità, temi sociali e Terzo Settore. Ha diretto per 13 anni la rivista Tracce. Membro della redazione del Meeting di Rimini (evento internazionale per il quale ha curato numerosi incontri), è stato caporedattore a Sette, magazine del Corriere della Sera, e ha seguito l’economia per L’Europeo. È laureato in Filosofia e ha un master in Giornalismo.
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