Da Jean-Claude Juncker a von der Leyen l’eredità dell' "Energy Union".
di
Margherita Bianchi
07 febbraio 2020
8 min di lettura
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Margherita Bianchi
07 febbraio 2020
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Ursula von der Leyen non ha certo nascosto l’intenzione di mettere il clima al centro del suo mandato. Lo ha chiarito durante la sua audizione davanti al Parlamento Europeo; lo ha ribadito nei suoi orientamenti politici; lo ha infine messo nero su bianco nelle lettere d’incarico per la sua squadra di commissari. Su clima e energia il lavoro del nuovo esecutivo dovrà necessariamente ripartire da alcuni dossier lasciati aperti dal precedente, ma il passaggio di testimone da Jean-Claude Juncker a von der Leyen sembra abbandonare, almeno in parte, il cappello dell’ “Energy Union”, l’ambiziosa strategia energetica e climatica messa in piedi proprio da Juncker.
Composta da cinque pilastri – sicurezza energetica, mercato dell’energia, efficienza energetica, decarbonizzazione, ricerca&innovazione – l’Energy Union è il perimetro nel quale si sono rafforzati, nell’arco dei cinque anni dalla sua nascita nel 2014, i meccanismi interni e la proiezione esterna dell’Unione Europea su clima ed energia. Sotto il suo cappello, la Commissione ha finalizzato molti atti normativi importanti, primo tra tutti il cosiddetto “Pacchetto energia pulita per tutti gli europei” composto da otto provvedimenti su emissioni, efficienza, rinnovabili, strumenti per garantire maggiore flessibilità nel mercato dell'elettricità e per affrontare meglio i rischi del settore, per rafforzare la cooperazione tra i regolatori dell’energia e per stabilire una governance funzionale al raggiungimento degli obiettivi UE per il 2030. Fortemente sponsorizzata dal polacco Tusk e nata dalle tensioni tra Russia, Ucraina e UE del 2014 (e quindi dalle potenziali conseguenze sull’approvvigionamento di gas russo) l’Energy Union ha avuto anche un impatto importante sulla struttura dell’approvvigionamento energetico e sulla dimensione esterna europea.
Nonostante gli incoraggianti e consistenti risultati, la missione non può però certo dirsi compiuta, con molti dossiers – cruciali nel puzzle dell’integrazione energetica e climatica – che aspettano una risposta. A suo discolpa si può affermare che la Commissione Juncker si era data un compito non facile e che il progetto è relativamente giovane. E’ poi tristemente noto che, specialmente in ambito energetico, l’ambizione della Commissione e del Parlamento soccomba alla realpolitik degli stati membri, che producono veti incrociati e target al ribasso. I nodi da sciogliere sono in ogni caso tantissimi sia sul fronte interno – a partire dai piani nazionali al 2030 (PNIECs), fino alla fiscalità, passando per le barriere permanenti sulle interconnessioni – sia su quello esterno. Sembra infatti impossibile parlare con una sola voce sulle infrastrutture energetiche strategiche, e sul clima rimane la necessità di rendere la sicurezza climatica una priorità geopolitica di tutte le relazioni esterne – soprattutto coi grandi emettitori.
Malgrado però le molte caselle da riempire, nella nuova era von der Leyen non esisterà più un vicepresidente per l'Energy Union – incarico fin’ora ricoperto dallo slovacco Sefkovic. La strategia non viene peraltro menzionata quasi mai nelle linee programmatiche della nuova Commissione, segnale di una marcata discontinuità rispetto al passato, che, sebbene possa destare smarrimento, potrà auspicabilmente rivelare un approccio innovativo e funzionale a minori divisioni e maggiore efficienza.
Dalle lettere d’incarico mandate dalla vdL ai commissari-designati si comprende già il cambio di passo. Il clima diventa tema di punta, configurandosi però come priorità trasversale rispetto all’organizzazione della Commissione e non più come un pilastro a sé stante dell’Energy Union. Sarà per questo competenza di un vice presidente esecutivo, l’olandese Timmermans, incaricato di presentare entro cento giorni un “Green Deal europeo” e di proporre entro il 2021 un piano per alzare l’ambizione sulle emissioni al 55% entro il 2030. Si parla anche dell’istituzione di un fondo di transizione - particolarmente cruciale per alcuni paesi come la Grecia o la Polonia - che consenta di progredire in modo ordinato e socialmente accettabile verso una più sostenuta transizione energetica. In stretto contatto con Timmermans, in qualità di Commissario per l’economia, anche Paolo Gentiloni avrà un ruolo energetico molto rilevante. Dovrà infatti lavorare alla revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia, sarà responsabile di una proposta di tassa transfrontaliera sul carbonio e si occuperà del Piano d’investimenti per l’Europa sostenibile in linea con l’ obiettivo di neutralità climatica per il 2050. L’ex premier italiano lavorerà a sua volta in stretto contatto con Valdis Dombrovskis, incaricato di sviluppare una strategia di finanziamento verde per dirigere investimenti e finanziamenti verso la transizione energetica e di coordinare i lavori a livello globale. A Dombrovsis saranno inoltre affidate le relazioni con la Banca Europea degli Investimenti (BEI) ed un ruolo nel processo per convertire parte di essa in una banca europea per il clima. La dimensione della finanza, centrale nella transizione energetica, coinvolgerà quindi tanto Timmermans quanto Dombrovskis e Gentiloni, oltre che le strutture a loro supporto come DG CLIMA e DG FISMA.
Il portafoglio più strettamente energetico sarà invece nelle mani dell’estone Kadri Simson, già supervisore dei colloqui interistituzionali sulla riforma dei mercati dell'elettricità in Europa durante la presidenza estone dell'UE. Nella lettera d’incarico alla Simson si trova in effetti un richiamo iniziale all’Energy Union, valutata come positiva e ritenuta la base per lo sviluppo di un più forte mercato energetico europeo, ma anche in questo caso non emerge la posizione della nuova Commissione circa il futuro della strategia. La Simson sarà supportata dalla nuova Direttrice Generale per l’Energia, Ditte Juul-Jørgensen (precedentemente membro del gabinetto Vestager), che ha già anticipato una linea dura sulla contesa aperta da Nord Stream2 e Gazprom rispetto alla revisione della direttiva gas, dicendosi pronta ad andare davanti alla Corte di Giustizia o in arbitrato per difendere la linea UE. I pilastri della sicurezza energetica e del mercato dell’energia avranno quindi probabilmente vita a sé stante sotto la Simson, insieme al processo di governance dei PNIEC, in continuità dunque con la precedente Commissione.
L'ambizione di questa Commissione è quindi chiaramente quello di rendere il clima la golden rule che collega settori diversi come l'economia, la fiscalità, la digitalizzazione, l’energia e l'industria. Se la scorsa Commissione, affidando l’Energy Union a un vicepresidente, aveva marcato la cornice “energetica” dell’azione dell’esecutivo, col portafoglio al Green New Deal adesso nelle mani di uno dei tre vicepresidenti esecutivi, è decisamente il clima ad occupare la fascia alta della Commissione e a fungere da perimetro d’azione.
C’è probabilmente anche una ragione di comunicazione dietro questa scelta. L'energia da sola è certamente tema più sensibile per molti stati membri ma, volenti o nolenti, è anche un tema più distante dal grande pubblico. La lotta ai cambiamenti climatici, al contrario, è sempre di più motivo di partecipazione e interessamento alla politica comunitaria, godendo infatti di largo supporto popolare – al 93% secondo le più recenti rilevazioni di Eurobarometro. Una sostenuta azione sul clima, oltre ad essere preferibile e raggiungibile, paga dunque anche in termini di consenso, che certo non guasta in un’Europa indebolita da preoccupanti narrative sovraniste e nazionaliste. Appuntamento quindi al primo novembre, fischio d’inizio per la nuova Commissione, che dovrà dimostrare di aver azzeccato la chiave per accelerare su priorità energetiche e climatiche.
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