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Il valore delle partnership

Come realtà differenti possono lavorare in sinergia per un obiettivo comune.

di Davide Perillo
10 giugno 2021
9 min di lettura
di Davide Perillo
10 giugno 2021
9 min di lettura

Un avvicinamento lento, reciproco. Ci si incontra, ci si conosce, si impara a scambiare le parole nella lingua dell’altro. Strada facendo magari si fa pure qualche mossa un po’ goffa. Ma inizia qualcosa che non c’era. Chi segue le iniziative di sostenibilità messe in campo nel mondo tira le fila di rapporti, lavori e legami che hanno una parola in comune: partnership. Che si tratti di formare medici in Mozambico o agricoltori in Nigeria, scavare pozzi d’acqua in Ghana o bonificare terreni minati in Angola, gli esempi di progetti che richiedono di lavorare fianco a fianco con altri soggetti sono tanti, in situazioni varie e con interlocutori altrettanto differenti: Organizzazioni della Società Civile, agenzie dell’ONU o di Cooperazione nazionali, ministeri e Banche di sviluppo, piccole realtà locali e operatori iperglobali. Come si fa a farli funzionare, a mettere insieme voci e strumenti così lontani tra loro per suonare lo stesso spartito? Perché la partnership è così importante da essere tra i 17 SDG, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU? Insomma, quanto vale saper lavorare insieme?

Lavorare insieme

Per capirlo, bisogna fare un passo indietro e guardare a un grande cambiamento degli ultimi anni. Risale al 2008, all’inizio della crisi economica, o meglio alla prima ondata della crisi. Tra i tanti effetti globali, ne ha avuto uno anche sulla cooperazione internazionale, che a grandi linee si può riassumere così: un taglio cospicuo dei fondi governativi, bilanciato solo in parte dall’entrata in scena di nuovi attori (la Cina, ma non solo). E richieste più pressanti ai privati, perché si mettessero in gioco come donatori.

È la partnership globale rivitalizzata, uscita dalla Conferenza di Addis Abeba del 2015. Un cambio di indirizzo notevole, che ognuno dei protagonisti ha vissuto a modo suo. Tante aziende hanno iniziato a finanziare i progetti di governi e istituzioni internazionali, e stop. Eni ha imboccato un’altra strada: non solo finanziare, ma fare le cose insieme. Realizzare tante attività sociali legate direttamente ai contratti di business, che partono quando vengono siglati accordi all’estero, comprendendo spesso lo sviluppo di progetti per la sostenibilità sul posto. Non solo quindi sostenere cose gestite da altri, ma collaborare in prima persona.

Eni: una lunga storia di cooperazione

Non è una scelta da poco. In parte è una questione di DNA: andando a rileggere le mosse di Eni all’estero, già dai tempi di Enrico Mattei, si troverebbero tracce importanti di un approccio fatto non soltanto di business, ma di lettura profonda del contesto in cui si opera, dei rapporti che lo costituiscono, dei bisogni. Un certo sguardo sul mondo, che in qualche modo continua anche oggi. La partnership è relazione e significa far venire fuori il meglio da quello che c’è e metterlo al servizio degli altri. Non solo della popolazione, perché in un contesto di globalizzazione è indispensabile creare rapporti con tutto l’ecosistema locale. Allargare quello sguardo e coinvolgersi con altri, insomma, diventa un fattore importante.

Un esempio è quanto fatto in Nigeria. Di solito gli interventi di sostenibilità avvengono nell'area dove si opera. Dove ci sono i progetti e gli impianti. In Nigeria, però, no. Un accordo con la FAO e con il governo ha permesso di andare a scavare dei pozzi d’acqua per la popolazione non nel Delta del Niger, ma nel Nord Est del Paese, dove ci sono le milizie di Boko Haram e l’emergenza idrica del lago Ciad. La FAO ha detto che aveva bisogno di pozzi in quel territorio, e l’Eni li ha fatti proprio lì, mettendoci strutture e capacità tecniche.

Altro caso, in Angola, dove Eni lavora assieme alla ONG locale ADPP per lo sviluppo dell’agricoltura, USAID ha deciso di aprire una gara per finanziare idee sull’empowerment femminile. ADPP ha partecipato con un progetto agricolo sviluppato assieme e ha vinto. Risultato: budget iniziale moltiplicato per tre.

Fare le cose assieme può di certo portare a un controllo minore, rispetto alle attività che si portano avanti da soli. A volte l’equilibrio è delicato. Bisogna conoscersi, capirsi. Un avvicinamento lento, appunto, tra due mondi che parlano linguaggi differenti e hanno motivi di azione differenti. Ma questo modo di operare porta vantaggi reciproci quando, all’inizio di un progetto, si può dire: bene, lavoreremo in questo Paese. Lì chi c’è? Un organismo internazionale? Le agenzie di cooperazione? Una Faith Based Organization? Quindi si inizia a studiare quello che fanno, per capire se ci sono sinergie possibili e attività che si possono portare avanti insieme. È un approccio innovativo.

Per svilupparlo ci si è dati un assetto ad hoc. Di fatto si è costituita dentro Eni una struttura simile a una ONG, in grado di parlare più facilmente la stessa lingua del mondo della cooperazione e di usare gli stessi strumenti. Per esempio, si crea un piano di sviluppo per ogni Paese, da aggiornare a scadenze periodiche. La FAO fa un Country Strategic Sheet. Eni ha un Country Strategic Plan, e racconta ogni quattro anni cosa vuole fare lì. Poi si fa uno scouting continuo, per trovare gli interlocutori migliori a seconda della situazione. Cosa non semplice, perché il panorama è vario: ci sono gli organismi internazionali, come l’ONU e le sue derivazioni; le agenzie nazionali per la cooperazione; gli enti europei; le banche di sviluppo, come World Bank, African Development Bank e altre. E ancora: le Faith Based Organizations, le università, i centri di ricerca. Ognuno con le sue derivazioni locali. Oltre alla galassia della società civile, delle varie ONG. Eni, nel 2020, ha firmato accordi con quattro tra le più grandi (Amref, CUAMM, AVSI e VIS), per aprire progetti comuni. Ma il vaglio continua.

In Ghana: accesso alla cucina pulita

In più, naturalmente, ci sono i rapporti da costruire sul territorio. Come è successo in Ghana. Per Eni è un Paese di nuova presenza, quindi è più semplice. Si parte più o meno da zero. Le attività di sviluppo sono su quattro settori: accesso all'acqua, educazione, diversificazione economica e clean cooking. Tutto costruito con partenariati, sia con una realtà internazionale che con soggetti locali.

Un esempio per tutti: il progetto per promuovere il clean cooking, ovvero l’uso di metodi non inquinanti per cucinare. Le cucine a legna o a carbone fanno milioni di morti all’anno nel mondo. In un caso del genere, occorre riconoscere subito chi sono le controparti. Si fa una mappatura e si cerca con umiltà di capire come funziona. Senza pensare di essere arrivati per primi, ma tenendo conto del fatto che c’è già un ecosistema, qualcos’altro che succede lì intorno.

In Ghana l’attività ha portato a un accordo con il National Board for Small Scales Industries, un’agenzia paragovernativa che offre formazione. Ci si aiuta reciprocamente a sviluppare idee imprenditoriali nelle aree di interesse, coinvolgendo poi la Banca Mondiale. Si cerca di lavorare assieme, riuscendo a soddisfare le intenzioni di tutti: testare approcci alternativi nelle aree rurali e promuovere il clean cooking. Poi, cercando altri partner, è stata individuata la Ghana Alliance for Clean Sources and Fuels, che è una specie di Confindustria locale del settore. Il primo risultato è arrivato: 600 fornelli puliti consegnati ad altrettante famiglie di Ellembelle, a Ovest del Paese. Ma la macchina è complessa. Serve un allineamento particolare che deve includere anche i partner commerciali, quelli con cui si fa business nel Paese. Impensabile muoversi senza il loro accordo. Alla fine, però, per certi versi è proprio il metodo, la strada per arrivarci, il fattore più significativo. Tessere rapporti, cucire e ricucire fili. E farlo con uno sguardo ampio, non fissato su un solo aspetto.

Empatia con i propri partner

In Messico sta partendo un progetto educativo implementato da AVSI. È appena all'inizio, ma promette bene. In Kenya un acceleratore d'impresa: una quarantina di start up (in parte gestite da donne) incubate da E4Impact Foundation assieme all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

Fare partnership nelle vesti di un’azienda o dal lato della partner è diverso. Eni ha dietro un progetto di business, e questo comporta anche trattare di soluzioni operative: tubi, pompe, scavi. Ci si confronta con aspetti molto concreti. Un esempio è quanto successo in Ghana. Il tubo che doveva portare l’acqua nei villaggi a un certo punto avrebbe dovuto attraversare un cimitero. Nel progetto non c’era. Si è parlato con i locali, si è stretto un accordo, facendolo passare da un’altra parte. E si è anche recintato il cimitero. Storia semplice, ma fa capire cosa vuol dire fare questo lavoro con uno sguardo aperto sull’altro.

L’autore: Davide Perillo

Giornalista, attualmente si occupa di sostenibilità, temi sociali e Terzo Settore. Ha diretto per 13 anni la rivista Tracce. Membro della redazione del Meeting di Rimini (evento internazionale per il quale ha curato numerosi incontri), è stato caporedattore a Sette, magazine del Corriere della Sera, e ha seguito l’economia per L’Europeo. È laureato in Filosofia e ha un master in Giornalismo.