Studi dell’ISTAT e di istituzioni europee convergono: per evitare il collasso, serve pensare in termini di densità relazionale, non solo demografica. Bisogna creare sistemi di permanenza modulare, come li definisce l’urbanista Paolo Pileri
di
Lucia Serino
06 ottobre 2025
8 min di lettura
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Lucia Serino
06 ottobre 2025
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Questo articolo è tratto da Orizzonti n. 68
Nel cuore della Basilicata, dove la geografia si fa orografia sentimentale, il ritorno estivo nei borghi abbandonati non è soltanto una pausa, ma un atto di resistenza civile e simbolica. Le case riaperte per pochi giorni, le feste patronali riattivate come liturgie laiche, i mercati improvvisati che vendono pane e memoria: tutto ciò compone una forma di cittadinanza intermittente, fragile ma reale. È una presenza effimera che però genera reddito, relazioni, persino istituzioni. Ed è proprio in questa tensione – tra l’evanescenza del ritorno e la potenza rigenerativa dell’abitare – che si può giocare il futuro delle aree interne della Basilicata.
Forse occorre iniziare a utilizzare nuovi indicatori statistici, oltre quelli della residenza. La regione, paradigmatica del destino delle aree marginali italiane, ha conosciuto nell’ultimo ventennio un inarrestabile processo di spopolamento. Secondo il rapporto Svimez, tra il 2002 e il 2021, la Basilicata ha perso quasi il 10% della popolazione. Un’emorragia silenziosa, dovuta alla migrazione giovanile, alla denatalità, alla desertificazione dei servizi. Eppure, nonostante l’apparente declino, questi luoghi custodiscono una forma latente di vitalità: un “capitale territoriale” che – come dimostrano numerosi studi accademici (Compagnucci & Gabriele, Alessandra De Renzis) – va ben oltre le logiche economiche immediate e si colloca nella sfera più ampia della sostenibilità culturale, ambientale e sociale.
Aliano, con la sua memoria di confino e la visione poetica di Franco Arminio, ne è l’epitome. Ogni anno, il festival “La Luna e i Calanchi” trasforma il borgo in un laboratorio di arte e pensiero: non un evento turistico nel senso convenzionale, ma un rito collettivo che invita alla riappropriazione del paesaggio interiore e pubblico. Qui, il ritorno estivo si traduce in cura del luogo, in pedagogia della lentezza, in economia dell’attenzione. Arminio non parla di “ripopolamento”, parola che odora di ingegneria sociale, ma di “presenza”, che è già un gesto radicale. Ma Aliano non è un’eccezione isolata.
A Castelsaraceno l’apertura del ponte tibetano più lungo del mondo ha rappresentato molto più di un’attrazione turistica. Ha generato lavoro, microimprese, e soprattutto un’identità condivisa, costruita intorno al gesto antico e modernissimo del camminare. I giovani tornano, non per nostalgia, ma per costruire: guide ambientali, artigiani digitali, operatrici del benessere. È una generazione che non chiede di “tornare al passato”, ma di inventare nuove forme di permanenza, intrecciando radici e futuro.
Simili traiettorie si incontrano nel progetto “Terre di Aristeo”, distretto turistico che aggrega decine di borghi lucani – da Pomarico a Sarconi, da Spinoso a Viggianello – attorno a un’idea di ospitalità diffusa, sostenibile, capace di generare economia senza snaturare l’anima dei luoghi. Si tratta, in sostanza, di risemantizzare il turismo: non come consumo rapido dello spazio, ma come esperienza immersiva, generativa, a lungo termine. Chi torna nei paesi per l’estate – anche solo per tre settimane – non è un turista, ma un cittadino temporaneo, un vettore di senso.
Tutto ciò acquista una rilevanza particolare se inserito nel contesto della montagna lucana, che la scorsa estate si è mostrata – più che mai – come un’alternativa non marginale alla costa. Complice la crisi climatica, le nuove sensibilità ambientali e la ricerca di autenticità, l’Appennino ha attirato viaggiatori in cerca di silenzi, cammini, relazioni non mercificate. Le mete tradizionali sul mare hanno ceduto il passo a esperienze come il “Cammino delle Terre di Mezzo”, itinerario che unisce spiritualità e paesaggio, o i progetti finanziati con fondi del Ministero del Turismo per la valorizzazione delle montagne lucane, capaci di generare forme di micro-economia, turismo lento e connessione tra comunità.
Il ritorno estivo diventa così un gesto politico, anche se non urlato. Una forma di cittadinanza culturale che non chiede necessariamente una residenza anagrafica, ma un coinvolgimento nella vita locale. Secondo l’approccio dell’innovazione sociale – come definita dal progetto europeo SIMRA (Social Innovation in Marginalised Rural Areas) – ciò che conta è la “ri-configurazione delle pratiche sociali” che coinvolgono cittadini e istituzioni locali nella creazione condivisa di valore. E proprio in Basilicata, grazie a realtà come Casa Netural, questa visione è già operativa: percorsi di co-abitazione, incubatori di comunità, mappature collaborative. La residenza diventa fluida, intermittente, ma non meno significativa.
A livello internazionale, molti territori hanno già riconosciuto il potenziale di una cittadinanza non permanente, ma capace di generare valore: nelle Alpi francesi, il turismo estivo ha saputo adattarsi alle esigenze di chi cerca una residenza temporanea ma consapevole, capace di valorizzare il paesaggio e di rispettare i ritmi locali. In Spagna, in Portogallo e perfino nei Balcani, piccole comunità rurali attraggono nuovi abitanti grazie a servizi essenziali condivisi, coworking rurali, reti di economia circolare.
E in Italia? Le aree interne, che coprono circa il 60% del territorio nazionale, ospitano meno del 25% della popolazione, ma custodiscono oltre il 70% del patrimonio culturale diffuso, forestale e paesaggistico. Studi dell’ISTAT e di istituzioni europee convergono: per evitare il collasso, serve pensare in termini di densità relazionale, non solo demografica. Non occorre “riempire i vuoti”, ma creare sistemi di permanenza modulare, come li definisce l’urbanista Paolo Pileri: città temporanee, borghi a intermittenza, presenze a geometria variabile che mantengano in vita i servizi, le scuole, le poste, le biblioteche.
La sfida, allora, non è solo demografica o economica. È culturale e semantica. Occorre smettere di pensare alle aree interne come a luoghi da salvare e iniziare a considerarli come luoghi da frequentare, da abitare anche solo per un tempo, ma con intensità e responsabilità. È in questa logica che il ritorno estivo assume un valore politico: un gesto che riconfigura la geografia italiana non più secondo assi di centro-periferia, ma secondo reti di senso, comunità elastiche, economie leggere.
Un ulteriore elemento da considerare è il rapporto tra tecnologia e spopolamento nelle aree interne. L’innovazione digitale, se ben utilizzata, può diventare un alleato prezioso per invertire le tendenze di declino. L’esperienza di coworking rurali e smart working sperimentata in vari borghi lucani, come nel caso di Pietrapertosa, dimostra come la connettività non sia più un lusso ma una necessità strategica. Si tratta di trasformare la marginalità in un’opportunità per creare comunità ibride, composte da residenti storici e “neo-abitanti” temporanei o permanenti, accomunati dalla volontà di mettere a frutto risorse locali in un contesto globale. Tale approccio, però, impone una sfida culturale: la valorizzazione del tempo lento, della cura per i beni comuni, in netta controtendenza rispetto alla rapidità e alla standardizzazione del vivere urbano. Lo confermano le ricerche di economisti come Stefano Bartolini, che sottolinea come la crescita di questi territori passi attraverso una “economia della cura e della rigenerazione”, capace di intercettare anche nuovi flussi di popolazione attratti non solo da motivi economici ma da ragioni esistenziali e ambientali.
In questo senso, il richiamo internazionale diventa ancora più significativo. Progetti come quello delle “Cittaslow” in Italia ed Europa mostrano la possibilità di combinare sviluppo economico e qualità della vita, rigenerando tradizioni ma anche innovando. In Basilicata, alcune comunità stanno sperimentando la produzione agroalimentare di qualità come leva di rinascita, recuperando antiche varietà e forme di sussistenza.
Non si tratta dunque di una nostalgia passiva, ma di una politica attiva di rigenerazione territoriale, un modo diverso di abitare il territorio, che trascende i confini tradizionali tra città e campagna, tra centro e periferia.