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Sanità lucana: occorre ripensarla

In Basilicata, una regione grande e poco abitata, il servizio sanitario è poco funzionale ed efficiente. Servono meno ospedali e più medicina del territorio, assistenza domiciliare e telemedicina.

di Andrea Di Consoli
24 febbraio 2021
5 min di lettura
di Andrea Di Consoli
24 febbraio 2021
5 min di lettura

Affrontare i problemi sanitari della Basilicata significa, ancora una volta, fare i conti con un territorio molto esteso e, al contempo, scarsamente antropizzato. Sono in tanti ancora a parlare di “piccola Basilicata”; ignorando, tanto per fare un esempio, che questa piccola regione, spesso confusa con il Molise, è due volte più vasta della Liguria. Avere così pochi abitanti – circa 550.000 – disseminati in maniera abbastanza uniforme su una superficie così vasta pone questioni strutturali estremamente complesse sul tema dei servizi e dei costi standard. A partire dalla sanità, che è il comparto che assorbe circa due terzi dell’intero budget dell’Ente Regione.

Compito della Regione è garantire il diritto alla salute a tutti i cittadini, ovunque vivano. Ma essendo la Basilicata anzitutto terra di paesi e di contrade – e di due città di media grandezza, e di una mezza dozzina di cittadine attestate intorno ai diecimila abitanti – è evidente che garantire cure, diagnosi e assistenza in un contesto socio-ambientale così polverizzato è non soltanto costoso, ma anche difficile da un punto di vista organizzativo. Un tempo si era trovato un equilibrio – assai costoso, a dire il vero – tra medici di famiglia e ospedali generici disseminati un po’ ovunque. Poi si è posto il tema dell’efficientamento e della riorganizzazione del sistema sanitario, e a quel punto sono nati numerosi comitati in difesa dei circa venti ospedali lucani, soprattutto di quelli più piccoli a rischio chiusura (chi ha buona memoria ricorderà le battaglie in difesa di ospedali come quello di Tinchi o di Maratea). Ma oggi tutti sanno che gli ospedali in funzione in Basilicata sono ancora troppi – attualmente sono 17 – e che una regione con così pochi abitanti non può permettersi così tanti nosocomi fotocopia. Chi si occupa di sanità sa bene che una regione ha bisogno di pochi ospedali estremamente specializzati ed efficienti e di una diffusa e funzionante rete di medicina territoriale. Realizzare però questo cambio di paradigma significa scontentare i territori, che spesso hanno con i propri ospedali rapporti di irrazionale attaccamento, anche quando di fatto non danno nessuna risposta sulle malattie acute. La verità è che oltre agli ospedali di Potenza e Matera – e al CROB di Rionero in Vulture, che è anche centro di ricerca – alla Basilicata basterebbe un solo altro polo ospedaliero, magari nell’area sud, magari a Lagonegro. Il resto della rete ospedaliera va ripensato, perché le malattie croniche dovranno per forza di cose essere risolte attraverso il combinato disposto di medicina del territorio, assistenza domiciliare e telemedicina.

Attualmente i problemi sul campo sono davvero tanti. Il principale riguarda la posizione scomoda del CROB, tutto sbilanciato in favore dei malati oncologici dell’area nord, penalizzando i malati di tumore dell’area sud, che in non pochi casi impiegherebbero lo stesso tempo per raggiungere, tanto per fare un esempio, il “Pascale” di Napoli.

Un altro grave problema sono le liste d’attesa, tanto che sono migliaia le famiglie che decidono quotidianamente di pagare di tasca propria le spese diagnostiche. Perché quando c’è il sospetto di una malattia grave non ci si può permettere di perdere tempo: le risposte bisogna averle subito. In questo senso ospedali come Melfi, Pescopagano, Chiaromonte, Lauria, Tinchi o Stigliano potrebbero diventare avanzati e innovativi centri diagnostici, ovvero luoghi dove compiere con celerità e rigore la prima e più importante fase del percorso sanitario: la diagnosi. Un momento di chiarezza fondamentale, non soltanto da un punto di vista medico, ma anche organizzativo. Purtroppo il Covid ha aggravato tutti questi problemi, ma ha anche posto le basi concettuali per un cambiamento di paradigma, perché abbiamo tutti capito, anche osservando alcuni errori nella gestione clinica dei malati di Covid nella prima fase, che non sempre ospedalizzazione significa migliore cura. Ecco, su questo aspetto bisogna lavorare molto, perché sradicare la convinzione che in ospedale “si è curati meglio” può giovare non soltanto alla salute dei cittadini, ma anche alle casse regionali, che è assai anomalo, avendo competenze assai estese, che vengano così largamente assorbite dal capitolo sanitario. Per fare questo, però, è necessario ripensare e ridisegnare l’esercito dei medici di famiglia e delle guardie mediche, il ruolo degli ambulatori territoriali, l’assistenza domiciliare e l’uso della telemedicina, che non significa affatto affidare, come taluni pensano, la diagnosi – un’intuizione olistica umana di straordinaria importanza – ai robot, ma rendere sempre meno necessari gli spostamenti, soprattutto degli anziani, in giro per la Basilicata. Last but not least, va segnalato con forza il gravissimo problema delle cure psichiatriche, settore sanitario nel quale si registra uno sbandamento un po’ ovunque, ma particolarmente nel Mezzogiorno. In Basilicata la situazione è evidentemente negativa, e forse andrebbe una volta e per sempre definito l’intervento della sanità pubblica su simili problemi, possibilmente senza cedimenti verso un certo facile buonismo post-basagliano, ancora attardato in letture romantiche delle psicosi più devastanti. Il disagio psichiatrico è un inferno non soltanto per chi lo vive, ma anche per le famiglie costrette ad affrontarlo nell’impotenza e nella solitudine più nera.