Luce: del sole, di un fuoco, degli alberi di Natale, dei negozi, di una lampadina accesa di notte. Allegria, festa… speranza. Oggi vi raccontiamo come la luce può fare la differenza. Perché se vivi nel campo profughi più grande del mondo, al confine tra Kenya e Somalia, avere la possibilità di studiare anche di notte, o quando fa buio, ti permette di avere una speranza di futuro…
Sette del mattino, a Milano d’inverno. Suona la sveglia, dalle fessure della tapparella abbassata si capisce che fuori è ancora buio. Tanto vale accendere la luce e iniziare la giornata… L’elettricità, che grande scoperta! Ma cos’è la luce? Se ne parlassi con Isaac Newton sicuramente inizierebbe con la sua complicata teoria corpuscolare, basta non farsi sentire da Hertz, però! Che altrimenti mi farebbe tutta una spiegazione a sostegno della teoria ondulatoria…
Alle 7 del mattino, è già da mal di testa… a me la luce (da buona siciliana) mette allegria, mi fa subito pensare al sole e al mare, mi ricorda le città illuminate per Natale, mi permette di scegliere i colori per i miei disegni e di leggere quando tutti dormono, semplicemente accendendo una lampadina. Eppure ci sono luoghi nel mondo in cui la luce non è così scontata e in cui accendere una lampadina significherebbe accendere una speranza.
Uno di questi luoghi è Dadaab, il campo profughi più grande del mondo, una città che si trova nel distretto di Garissa, in Kenya. Il campo di Dadaab è stato costruito nei primi anni Novanta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati per accogliere i profughi somali in fuga dalla guerra civile e, nel corso degli ultimi trent’anni, ha offerto una soluzione abitativa, seppur precaria, alle popolazioni martoriate da guerre e carestie in una delle zone più povere del mondo. Oggi ospita 350.000 persone di cui la metà bambini in età scolare, molti dei quali nati proprio nel campo.