Alcuni governi di tutto il mondo stanno esercitando sempre più controllo sulle informazioni che arrivano da Internet.
di
Andrea Signorelli
24 maggio 2021
10 min di lettura
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Andrea Signorelli
24 maggio 2021
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Ogni stato ha le sue leggi, il suo codice stradale e il suo sistema fiscale. Non sarebbe logico che ognuno potesse tracciare con la stessa nettezza anche i confini della circolazione dell’informazione online? La risposta a questa domanda potrebbe sembrare retorica, soprattutto considerando che –in assenza di leggi nazionali– tutto il potere su ciò che si può o non si può dire su internet ricade nelle mani di pochissimi colossi digitali internazionali. Alle nazioni rimangono solo due soluzioni: o bloccare completamente alcune piattaforme (dai social network ai motori di ricerca), come avviene in Cina e in pochi altri paesi, oppure imporre la cancellazione di ogni contenuto risultato sgradito.
Finché questo genere di richieste giunge da nazioni democratiche, le società private che gestiscono le piattaforme online, solitamente si adeguano senza particolari difficoltà alle peculiarità di ogni nazione. In Italia, per esempio, è reato insultare (ovviamente anche online) il presidente della Repubblica; in Germania è vietato esporre simboli di estrema destra che in altre nazioni sono invece consentiti.
Ma cosa succede invece, quando a chiedere di cancellare alcuni contenuti sono paesi scarsamente democratici? È quello che è avvenuto per esempio in India, nazione in cui il governo, negli ultimi anni, ha assunto toni sempre più autoritari: recentemente, alcune aree del paese sono state attraversate da grandi manifestazioni di agricoltori, in protesta contro nuove norme varate dal Parlamento. Il governo indiano, citando le sue leggi contro la minaccia all’ordine pubblico, ha richiesto a Twitter di cancellare o nascondere oltre mille account che diffondevano informazioni o video relativi alle proteste.
Invece di adempiere alle richieste del governo, Twitter si è opposto, rifiutandosi di eliminare i profili di giornalisti, attivisti e altri che stavano utilizzando il social network per diffondere informazioni sulle proteste in corso. Chi ha ragione? “Non penso che un governo possa semplicemente imporre a un’azienda di rispettare la legge e che questa debba obbedire”, ha affermato al New York Times Chinmayi Arun, membro della facoltà di Legge a Yale e direttore fondatore del Center for Communication Governance alla India’s National Law University di Delhi. “Se le aziende si trovano di fronte alla consapevolezza che una legge interferisce con la libertà umana, allora penso che tirarsi indietro e affermare di non avere scelta sia solo una scappatoia”.
Il dilemma di fronte a cui ci si trova è chiaro: bisogna sempre obbedire alle richieste di un governo legittimo o si può in alcuni casi fare riferimento all’articolo 19 che sancisce il diritto alla libertà di opinione con ogni mezzo e senza frontiere, e in forza di questo rifiutarne l’adempimento? La questione, come si intuisce, è complessa. E si complica giorno dopo giorno, considerando che solo negli ultimi mesi nazioni come Russia, Ungheria e Polonia hanno promulgato nuove leggi –come racconta Human Rights Watch– per assicurarsi che le piattaforme rimuovano in tempi rapidi alcuni contenuti indesiderati e, al contrario, non possano mai cancellare quelli di emanazione governativa, indipendentemente dal fatto che violino le linee guida dei social network.
In Russia, per esempio, è stata varata a inizio 2021 una legge che permette di multare le aziende che non obbediscono in tempi rapidi agli ordini del governo, rifiutandosi magari di eliminare alcuni contenuti sgraditi se non addirittura illegali (tra cui quelli che esagerano il numero dei manifestanti e le fake news sugli abusi da parte della polizia). Le multe possono arrivare fino al 10% del fatturato delle aziende colpite e sono state fatte già valere in seguito ai disordini, molto seguiti sui social, che si sono verificati in seguito alla recente ondata di proteste. È giusto che i social network si pieghino a richieste del genere o devono invece opporsi?
Come si vede, la questione è molto complessa. Ed è proprio nel tentativo di aggirare tutte le difficoltà poste da una rete internet globale, in cui l’informazione tende a scorrere senza filtri, che molte nazioni stanno puntando su quella che viene chiamata cybersovranità, un termine con il quale si indica la volontà dei governi di imporre a livello infrastrutturale dei limiti alla circolazione dei contenuti online. La stessa India, per esempio, ha imposto nel 2017 il blocco nella nazione dell’Internet Archive, il cui obiettivo è creare una copia permanente dei materiali presenti in rete. L’anno successivo, ha inoltre chiuso tutti i siti a luci rosse e nel 2020 ha bloccato numerosi siti ambientalisti, compresi quelli che facevano riferimento al movimento Fridays for Future.
Ma quando si tratta di limitare la libera circolazione dell’informazione online, nessuna nazione ha preso misure tanto strutturali quanto la Cina. Non è una novità: già nel 1997 Wired raccontava del progetto cinese per censurare e bloccare al di fuori della Repubblica Popolare le fonti d’informazione indesiderate. È il sistema noto come Grande Firewall: entrato definitivamente in funzione tra il 2006 e il 2008 e in grado di bloccare tutti i contenuti disapprovati, impedendo agli utenti cinesi l’accesso. È la ragione per cui in Cina non è possibile usare Facebook, Whatsapp, Google e Twitter: sostituiti da versioni locali (Wikipedia compresa), spesso dalle dimensioni altrettanto imponenti (basti pensare a una super app come WeChat o al motore di ricerca Baidu) e attentamente monitorate dal governo di Pechino.
Ma quella che per lungo tempo è stata una caratteristica cinese sta diventando sempre di più la normalità. Il caso più evidente è la cosiddetta Halal Net, in lavorazione in Iran fin dal 2012, che nelle sue versioni più drastiche prevede di scollegare tutti i cavi, i server e i data center dal resto della rete, rendendola impenetrabile alle influenze esterne e impermeabile all’utilizzo di sotterfugi come proxy o VPN (che consentono di aggirare la censura).
LaHalal Net sarebbe quindi una vera e propria intranet nazionale, come la Kwangmyong della Corea del Nord (dove internet è accessibile solo a una ristrettissima cerchia di persone) o quella a cui per lungo tempo –prima delle parziali liberalizzazioni– ha potuto accedere la popolazione cubana. Anche la Russia procede sulla stessa strada: a cavallo tra il 2019 e il 2020, Mosca ha completato un test durato più giorni per sperimentare il blackout di internet (la possibilità di scollegare la rete russa da quella globale in caso di emergenza) e per avanzare ulteriormente il progetto di RuNet, l’ennesima intranet locale.
Più aumenta il controllo sulla rete e più, inevitabilmente, peggiora la libertà di internet. In un recente report, la ONG Freedom House segnala la diminuzione di libertà nell’utilizzo di internet per il decimo anno consecutivo a causa delle restrizioni avvenute in 26 delle 65 nazioni prese in esame. I governi impongono la loro volontà alle piattaforme tramite leggi, progettano social network alternativi sui quali è più semplice esercitare il controllo e, come extrema ratio, arrivano anche a isolare la rete nazionale da quella globale.
La separazione della rete, nata come unica e globale ma che si sta gradualmente frammentando, è un fenomeno noto come Splinternet. “Le nazioni religiose non vogliono essere inondate da blasfemia e pornografia provenienti dal resto del mondo e a livello globale, i governi non vogliono che degli insorti utilizzino internet per rovesciarli. Le democrazie non vogliono che le fake news provochino rivolte. La Cina non vuole che le persone promuovano la democrazia multipartitica. La Russia non vuole che circolino informazioni occidentali sugli oligarchi. E gli americani non vogliono che la Russia si intrometta nelle sue elezioni”, ha scritto un esperto della materia come Mike Elgan. “Splinternet è semplicemente il risultato dell’estensione delle leggi dei governi nazionali sul cyberspazio: un destino inevitabile”.
Internet, in un certo senso, è vittima del suo successo. Agli albori della rete, nessuno poteva immaginare come questa avrebbe cambiato il mondo. In un articolo del 1998, l’economista e vincitore di un Premio Nobel Paul Krugman, disse che il suo impatto non sarebbe stato superiore a quello del fax. Le cose sono andate molto diversamente e oggi internet è un’infrastruttura portante in tutto il globo, utilizzata quotidianamente da 4,6 miliardi di persone e che rende teoricamente possibile raggiungere e ottenere informazioni in qualunque momento e angolo del globo. Difendere una conquista di tale entità ed evitare che ogni nazione costruisca il proprio recinto digitale è probabilmente una delle sfide più importanti del nostro tempo.
Giornalista classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Domani, Esquire, Il Tascabile e altri. È autore di “Technosapiens: come l’uomo si trasforma in macchina” (D Editore, 2021)
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