L’Europa non è all’avanguardia dell’innovazione tecnologica, visto che nessuna delle grandi piattaforme digitali che hanno segnato questa epoca, con l’eccezione di Spotify e dell’ormai superata Skype, è nata su questo lato dell’Atlantico. Il Vecchio Continente ovviamente resta una regione viva, capace di innovare in molti settori industriali, in particolare quelli della manifattura e della meccanica di alta qualità, ed è in grado di conciliare meglio di altri la cultura umanista e quella tecnica, ma la scia del progresso del XXI secolo è segnata dalla Silicon Valley americana e la sfida del futuro è quella di non subire il nuovo protagonismo tecnologico della Cina.
L’Europa si difende con perizia e l’assenza di Big Tech continentali le consente maggiore libertà nell’affrontare una delle questioni decisive di questa stagione: quella di provare a regolamentare i monopoli digitali e di proteggere le istituzioni e i processi democratici delle società libere. I tanto vituperati burocrati di Bruxelles si sono dimostrati lungimiranti sulla protezione dei dati personali da abusi e manipolazioni commerciali, sociali e politiche e sulla salvaguardia dei diritti intellettuali. La direttiva sulla privacy, approvata due anni fa ed entrata in vigore a maggio 2019 e, poi, quella sul copyright di quest’anno sono i primi tentativi seri di un’istituzione politica importante di trovare un modo per regolamentare la rivoluzione digitale.
Per effetto della prima direttiva, il 25 maggio 2018 è entrato in vigore in tutta Europa - ma di fatto anche oltre i confini dell’Unione - un Regolamento generale sulla protezione dei dati, il GDPR (General Data Protection Regulation), che ha costretto i colossi globali di Internet ad adeguarsi alla normativa europea anche in assenza di omologhe leggi americane. Il GDPR è diventato un modello per simili iniziative legislative negli Stati Uniti, a livello locale e federale, ormai citato da quegli analisti e da quei politici americani che hanno iniziato a sostenere pubblicamente che le piattaforme social hanno bisogno di essere limitate e contenute. L’intervento di Bruxelles è stato immaginato ben prima che esplodesse il caso dei profili Facebook usati da Cambridge Analytica a fini politici e senza il consenso degli utenti ed è entrato in vigore molto prima che il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, dopo averlo negato per anni, riconoscesse che sulla sua piattaforma circola indisturbata la disinformazione politica generata dagli agenti del caos.
Il GDPR è un complesso codice di novantanove articoli che affronta il tema della violazione della privacy e della prevalenza dell’algoritmo sui sistemi democratici. Grazie all’Europa, i proprietari dei dati personali raccolti dai giganti della Silicon Valley sono tornati a essere i frequentatori dei social, mentre chi li immagazzina, li analizza e poi li vende non ha più la totale libertà di usarli senza limiti. Questo è ancora un primo passo e c’è ancora molto da fare, ma per la prima volta ai titolari dei dati è riconosciuto il diritto di accesso alle proprie informazioni, che potranno correggere, trasferire e cancellare. È ancora tutto molto macchinoso, ma le aziende che custodiscono le informazioni private ora devono seguire regole molto stringenti su raccolta, uso e protezione dei dati, oppure pagare multe, come sono già state costrette dalle autorità europee, fino a 20 milioni di euro o fino al 4% degli utili annuali. Bruxelles fa sul serio e ha anche preparato un codice di autoregolamentazione affinché Facebook e gli altri social network provino volontariamente a fermare la diffusione delle fake news e la manipolazione delle informazioni online. L’autoregolamentazione serve a poco, ma l’iniziativa europea è uno stimolo per le istituzioni politiche americane e internazionali che nei prossimi anni avranno il compito di rompere i monopoli, liberare la concorrenza e scrivere il codice dell’era digitale.
A chi sostiene che i dati personali valgono così tanto al punto da essere diventati “il nuovo petrolio”, l’Europa ha risposto in modo più potente e più sofisticato che semmai i dati personali sono i diritti umani del XXI secolo. A questa considerazione sono arrivate alcune big della tecnologia come Apple, un’azienda che non monetizza i dati dei suoi clienti. Secondo l’amministratore delegato Tim Cook, la privacy è un “diritto dell’uomo” e la protezione dei dati personali è simile alle libertà civili tradizionali come quelle di parola e di stampa.
Con un processo politico e legislativo travagliato, il Parlamento e le altre istituzioni europee sono andati oltre la privacy e hanno approvato anche la direttiva sul diritto d’autore che, anche in questo caso, si può definire come il primo tentativo serio di protezione dei diritti dei produttori di contenuti intellettuali e giornalistici dall’uso commerciale senza consenso sulle grandi piattaforme digitali. La direttiva europea in difesa del copyright ha avuto una gestazione molto più difficile rispetto al regolamento sulla privacy, ed è stata resa complicata da una grande campagna di pressione sull’opinione pubblica da parte delle piattaforme digitali e dalla tenace opposizione ideologica di numerosi gruppi populisti e tecno-anarchici, a cominciare da quelli italiani, che in questi anni hanno dominato l’attenzione e i risultati elettorali europei.
Il testo della direttiva è vago, sarà soggetto a diverse interpretazioni e dovrà essere recepito dai singoli paesi dell’Unione con norme ad hoc, ma per chi produce news rappresenta una protezione del proprio business simile a quella già in vigore per la musica, il cinema e la televisione, oltre che un sostegno a un sistema di informazione di qualità messo in crisi dalla circolazione gratuita e per questo sempre più dipendente dell’algoritmo dei social.
Questo dirigismo illuminato dell’Europa non è da sottovalutare, perché ha ritagliato alle istituzioni dell’Unione e ai paesi membri un ruolo decisivo nel dibattito globale sulla regolamentazione degli aspetti più controversi della rivoluzione digitale, ma anche sul clima e su altre questioni della società contemporanea. È un ruolo di coscienza critica del mondo libero complementare a quello interpretato dagli Stati Uniti e volto a mantenere l’egemonia tecnologica. Europa, Stati Uniti e i paesi alleati sarebbero ancora un blocco imbattibile, anche nella sfida con i cinesi sulla tecnologia 5G se solo continuassero, come in passato, ad agire strategicamente di comune accordo, ciascuno secondo le proprie abilità, invece che inseguire unilateralmente una vuota retorica nazionalista destinata alla sconfitta.
Christian Rocca è editorialista de Il Sole 24 Ore. In passato ha diretto il magazine IL – Idee e Lifestyle, è stato inviato speciale ed editorialista de Il Sole 24 Ore e corrispondente de Il Foglio dagli Stati Uniti. Collabora con diverse testate italiane e internazionali. Il suo ultimo libro è “Chiudete Internet – Una modesta proposta” (2019) edito da Marsilio.
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