L’assetto mondiale del secondo dopoguerra si sta sgretolando. Le mutevoli dinamiche energetiche del XXI secolo non sono la causa principale di questo sgretolamento, eppure ne stanno accelerando il processo. I rapporti geopolitici con i paesi del Golfo, una volta considerati inviolabili, stanno ora subendo una profonda trasformazione. Il nuovo ambiente energetico minaccia inoltre la stabilità interna a lungo termine di questi paesi e i governi del Golfo hanno iniziato a prepararsi al momento in cui i proventi delle esportazioni di energia potrebbero non essere più sufficienti per garantirla. È l’inizio di una nuova era, che le monarchie del Golfo lo vogliano o meno.
Ciò non significa che questi paesi siano stati colti impreparati da tutti questi sviluppi. In risposta all’evoluzione delle dinamiche energetiche mondiali, e in particolar modo all'ascesa degli Stati Uniti come principale produttore di energia al mondo, i paesi del Golfo hanno sviluppato il settore downstream e quello petrolchimico al fine di diversificare le loro economie e di ridurre la loro eccessiva dipendenza dalla produzione e dall'esportazione di greggio. Essi si sono concentrati principalmente sul settore petrolchimico in quanto ritengono di possedere un vantaggio competitivo nell'accesso a materie prime a più basso costo connesso alla produzione upstream, oltre alla garanzia di clienti e di crescita della domanda a lungo termine data la vicinanza geografica al mercato manifatturiero e degli utenti finali in Asia. Non è un caso che il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (MbS), si stia preparando ad annunciare l’ingresso ufficiale del Regno nell’iniziativa cinese della Nuova via della Seta (BRI, Belt and Road Initiative), oltre a rendere l’Arabia Saudita il punto di snodo degli investimenti cinesi in Africa. Si tratta di un tentativo di allineare le necessità economiche con l’opportunismo geopolitico, nonostante ciò non comporti una riduzione della dipendenza di fondo della regione dal greggio e dai prodotti petroliferi, veri strumenti di diplomazia del Golfo.
A dire il vero, anche se i paesi del Golfo riusciranno ad attuare con successo una diversificazione economica, l’energia resterà una componente importante tanto della loro economia quanto della loro attività diplomatica. In tal senso, abbiamo assistito alla nascita di una collaborazione tra l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) e la Russia. La struttura e la natura dell’OPEC sono cambiate in maniera significativa, con l’Arabia Saudita che, insieme alla Russia, ricopre un ruolo cruciale nella gestione, degli ultimi tagli alla produzione. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti continueranno a cercare nuovi modi per consolidare la cooperazione con la Russia nella gestione dei mercati petroliferi. La notizia di una proposta di creazione di un’organizzazione sostitutiva dell’OPEC incentrata su Arabia Saudita e Russia non dovrebbe sorprendere.
Tuttavia, mentre cominciano a riorganizzarsi sulla scena internazionale, i paesi del Golfo devono anche affrontare le questioni politiche che li riguardano da vicino, tanto più che la sicurezza e il contesto politico del Medio Oriente allargato influenzano la produzione energetica e la determinazione dei prezzi di vendita. Nel complesso panorama geopolitico della regione, una delle poche certezze è che MbS non uscirà di scena, ma l’erede al trono ha bisogno di una maggiore stabilità nel Golfo, viste le sfide politiche ed economiche del Regno. E anche gli altri paesi della regione ne hanno bisogno, in quanto le oscillazioni del prezzo del petrolio non fanno che rendere più rischiosi i programmi di diversificazione economica: prezzi troppo bassi metterebbero a repentaglio le risorse fiscali, mentre prezzi troppo elevati ridurrebbero la volontà di attuare il tanto necessario cambiamento. Per raggiungere la stabilità geopolitica i sauditi dovranno con tutta probabilità ritirarsi dalla guerra in Yemen e intensificare il dialogo con il Qatar (con il Kuwait che potrebbe fare da mediatore). Inoltre, il bisogno di stabilità obbligherà Riad ad accettare la situazione in Siria (ad esempio riconoscendo la vittoria di Bashar Assad e rassegnandosi all’idea) e a mitigare le prospettive di un confronto diretto con l’Iran (fortunatamente entrambi i paesi devono affrontare varie sfide interne, tenuto conto che Teheran sta entrando in una grave recessione economica).
Detto ciò, bisogna riconoscere che la politica negli stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) cambierà notevolmente nel prossimo decennio. Una nuova generazione di leader sta assumendo le redini del potere in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e, in una certa misura, persino in Oman. Fino a poco fa, questa nuova generazione è stata spesso rappresentata come inaffidabile, ma ora sta diventando più prevedibile e pragmatica. Tuttavia, i nuovi leader dovranno affrontare una crescente pressione dal basso per una maggiore partecipazione popolare. Tale pressione proviene dalla forza lavoro giovane, cronicamente sottoccupata, e in particolar modo da quanti si battono per la rappresentanza di gruppi emarginati come giovani, donne, minoranze religiose e abitanti delle aree meno benestanti di Arabia Saudita, Oman, Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti.
Con un più ampio accesso all’istruzione e all’informazione aumentano le aspettative in termini di trasparenza, libertà di espressione e partecipazione politica. Una maggiore libertà di informazione ha un impatto particolarmente marcato nei paesi in cui precedentemente i mass media erano strettamente controllati dal governo, come nel Golfo. Le generazioni più giovani sono esposte a una più grande varietà di idee rispetto ai loro genitori. I social media, molto popolari negli stati del Golfo, stanno normalizzando la libera espressione e il dibattito partecipativo. Queste crescenti pressioni non condurranno necessariamente alla rivoluzione, ma se i governanti del Golfo non faranno in modo di soddisfare le nuove aspettative, lo scontento dell’opinione pubblica potrebbe aumentare negli anni a venire. Tale scontento faticherà a sfociare in proteste di successo, visti gli strumenti e le risorse possedute dai governi del Golfo per mantenere il potere. Tuttavia, le lotte per il potere e la ricchezza potrebbero polarizzare i gruppi sociali, etnici o religiosi; i movimenti di opposizione potrebbero radicalizzarsi e generare fratture, proprio come le politiche di governo che li hanno generati; infine, le grandi potenze regionali e internazionali potrebbero sfruttare le debolezze politiche irrisolte.
È ormai da decenni che l’energia rappresenta una delle poche certezze per gli stati del Golfo. Ciò è al tempo stesso una benedizione e una condanna, in quanto rende questi paesi vulnerabili alle oscillazioni dei prezzi del petrolio, ma fornisce loro proventi più che sufficienti per garantire la pace politica interna. Ma data la perdita di centralità geopolitica del Medio Oriente per via delle nuove dinamiche energetiche, le monarchie del Golfo faticheranno a rendere questo nuovo modello energetico altrettanto proficuo per le loro economie quanto quello precedente.
Ian Bremmer è il Presidente del Gruppo Eurasia, una società leader nel settore della consulenza e della ricerca del rischio politico globale. Bremmer ha fondato il Gruppo Eurasia nel 1998, con un capitale di soli 25.000 dollari. Oggi la società ha sedi a New York, Washington e Londra e collabora con una rete di esperti e risorse attivi in tutto il mondo. Il Gruppo Eurasia fornisce a clienti finanziari, corporate e governativi informazioni e approfondimenti su come gli sviluppi politici influiscano sull’andamento dei mercati. Bremmer ha creato il primo indice sul rischio politico globale di Wall Street ed è autore di numerosi libri, tra cui "Every Nation for Itself: Winners and Losers in a G-Zero World", che specifica in modo dettagliato rischi e opportunità in un mondo privo di leadership globale. Ha inoltre scritto il best-seller nazionale "La fine del libero mercato. Chi vince la guerra tra Stati e grandi imprese?" e "La curva J. La bussola per capire la politica internazionale", che è stato selezionato dall’Economist come uno dei migliori libri del 2006. Bremmer collabora con il Financial Times, A-List e Reuters.com e cura il blog The Call su ForeignPolicy.com. Ha inoltre pubblicato articoli sul Wall Street Journal, Washington Post, New York Times, Newsweek, Harvard Business Review e Foreign Affairs. Partecipa regolarmente a programmi sulle reti televisive CNBC, Fox News Channel, National Public Radio e altri network.
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