A febbraio di quest’anno è ricorso il quarantesimo anniversario della rivoluzione iraniana del 1979. Quell’evento cruciale ha mutato radicalmente le strutture socio-politiche interne del paese, sovvertendo secoli di dominio monarchico a favore di un nuovo repubblicanesimo islamico che ha saputo fondere, talvolta con sforzo notevole, elementi di autoritarismo e partecipazione democratica. La rivoluzione, inoltre, ha stravolto le relazioni dell’Iran sia con i paesi limitrofi sia con le potenze mondiali, sostituendo un governo saldamente filo-occidentale con una nuova leadership di natura ideologica che si è battuta per l’esportazione dei propri ideali rivoluzionari e l’equidistanza dagli schieramenti contrapposti della Guerra fredda. Quattro decenni dopo, l’Iran si trova in un frangente tanto propizio quanto rischioso: se infatti da una parte la rivalità con gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente è sempre più aspra, dall’altra la Repubblica Islamica sta esercitando sulla regione un’influenza che probabilmente non ha precedenti nella storia recente.
Nessuna relazione dell’Iran con le grandi potenze dimostra la portata radicale del mutamento provocato dalla rivoluzione in misura altrettanto netta del rapporto di Teheran con Washington. Durante il governo dell’ultimo scià, Mohammad Reza Pahlavi, l’Iran era un fedele alleato e un partner regionale strategico degli Stati Uniti, al punto da essere stato definito uno dei due “pilastri gemelli” della politica statunitense in Medio Oriente insieme all’Arabia Saudita. L’ayatollah Ruhollah Khomeini, che si era dimostrato il più acceso oppositore dello scià e aveva assunto il potere dopo il rovesciamento della monarchia, accusò gli Stati Uniti di aver aiutato lo scià a reprimere i movimenti popolari provocando un profondo risentimento nel paese, ridotto a vassallo di una superpotenza. Agli occhi di Washington, l’assalto all’ambasciata statunitense del 1979 e la crisi degli ostaggi di 444 giorni che ne seguì restano il peccato originale della Repubblica Islamica, che nei decenni successivi non ha fatto che esacerbare la situazione intonando senza sosta grida di “morte all’America”, organizzando attentati contro obiettivi statunitensi, fornendo sostegno a una vasta serie di gruppi non statali che indeboliscono e minacciano gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati e, dall’inizio degli anni 2000, sviluppando un programma nucleare la cui presunta natura militare è diventata motivo crescente di forte preoccupazione.
A nutrire diffidenza e rimostranze analoghe sono gli iraniani, convinti che Washington non si sia mai rassegnata alla perdita della propria influenza nel paese e tenti di scardinarne l’ordinamento vigente ogni volta che può. “Gli Stati Uniti non ci hanno mai perdonato per aver esercitato il nostro diritto all’autodeterminazione”, ha dichiarato di recente il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif. “Pertanto, siamo da tempo oggetto di una morbosa fissazione, di un’ossessione, che continua ancora oggi”.
Eppure, l’ostilità degli ultimi quarant’anni tra Iran e Stati Uniti non ha impedito brevi spiragli di cooperazione tattica, come nel caso della vendita di armi alla Repubblica Islamica durante la presidenza di Ronald Reagan e della collaborazione per rovesciare i talebani nel 2001. Anche se alla fine ebbe vita breve, durante il mandato di Clinton ci fu addirittura qualche incerto passo verso la distensione. Nessuno di questi scambi, comunque, ha avuto esiti chiari, evidenti e concreti quanto i negoziati che nel 2015 hanno portato al Piano d’azione congiunto globale (PACG). L’accordo, raggiunto dopo anni di crescenti timori sul programma nucleare iraniano e negoziati meticolosi, ha imposto restrizioni alle attività nucleari iraniane in cambio della revoca di alcune sanzioni internazionali. Anche se formalmente Teheran ha raggiunto l’accordo con sei potenze mondiali (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania), per poter essere approvato definitivamente sono stati necessari colloqui bilaterali segreti con Washington.
In seguito all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, vi è stata una clamorosa inversione di rotta, dalla politica del “coinvolgimento limitato” dell’era Obama a un rinnovato antagonismo, quando non addirittura allo scontro aperto. Ritenendo l’accordo sul nucleare un cattivo affare e allarmati dall’apparente crescita dell’influenza iraniana in Medio Oriente, gli Stati Uniti non si sono limitati a ritirarsi unilateralmente dal PACG nel maggio del 2018, ma hanno anche dichiarato di voler esercitare una campagna di “estrema pressione” contro Teheran, in primo luogo tramite la ripresa di sanzioni a tutto campo che erano state sospese ai sensi dell’accordo sul nucleare iraniano. Lo scopo, illustrato l’anno scorso dal segretario di Stato Mike Pompeo in dodici punti, non è solo di spingere l’Iran a fare ulteriori concessioni sul fronte nucleare, ma anche di ridurne notevolmente le conquiste nella regione. Teheran, d’altra parte, considera questi obiettivi malcelate ambizioni di provocare addirittura un cambio di regime su larga scala.
Le sanzioni unilaterali da parte statunitense (in particolare quelle che colpiscono le esportazioni di energia) stanno indubbiamente causando all’Iran notevoli tensioni economiche: le vendite petrolifere sono calate, l’inflazione è aumentata e le aziende straniere, temendo l’ira delle autorità competenti statunitensi, sono sempre meno propense a fare affari in Iran. Per il momento, tuttavia, una resa imminente dell’Iran alle pretese statunitensi è poco probabile: nonostante la possibilità che si preannunci un periodo difficile, Teheran è convinta di poter riuscire a mantenere solida la propria economia abbastanza a lungo da sopravvivere all’attuale amministrazione statunitense e possibilmente da riprendere il dialogo con un successore meno inflessibile di Trump alla presidenza degli Stati Uniti. L’Iran, se non altro, sembra disposto ad attendere l’esito delle elezioni americane del 2020 prima di decidere quale strada imboccare.
Ma tra la fiducia degli USA nella propria capacità di infliggere all’Iran sacrifici alla lunga intollerabili e la convinzione altrettanto ferma dell’Iran di poter sopravvivere all’assedio statunitense esiste la pericolosa possibilità di un’escalation progressiva che rischia di andare fuori controllo, tanto sul fronte nucleare quanto all’interno di un panorama regionale instabile in cui i due paesi lottano per esercitare la rispettiva influenza. Inoltre, nonostante la strategia coercitiva di Washington sia vista con grande favore dai suoi alleati storici nella regione come Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (che ritengono a loro volta l’Iran un nemico destabilizzante, pericoloso e in ascesa), essa ha provocato crescenti dissidi con i governi dei paesi che continuano a sottoscrivere il PACG: Regno Unito, Francia, Germania, Cina e Russia.
I rapporti dell’Iran con l’Europa non sono caratterizzati dalla profonda ostilità che ne ha contraddistinto le relazioni con gli Stati Uniti. Dalla rivoluzione del 1979, tuttavia, anche l’Iran e il Vecchio Continente hanno alternato periodi promettenti a fasi di tensione. Dall’inizio degli anni 2000, la presunta ricerca di armi nucleari da parte iraniana è diventata la preoccupazione principale dell’Europa ma anche l’oggetto della sua tenace diplomazia, inizialmente da parte di governi nazionali e in seguito con l’inclusione istituzionale dell’Unione europea. Come gli Stati Uniti, anche l’Europa ha applicato sanzioni all’Iran per contenerne l’attività nucleare, in particolare con il divieto di importare petrolio iraniano nel 2012. Impaziente di attirare investimenti esteri e di trovare partner in grado di modernizzarne infrastrutture e trasporti dopo la revoca delle sanzioni, in seguito all’accordo sul nucleare la Repubblica Islamica ha cominciato a siglare una vasta serie di contratti con aziende europee, anche se lo spettro persistente delle sanzioni secondarie sospese e la permanenza del principale embargo statunitense sull’Iran erano ancora sufficientemente forti da mantenere molte banche restie ad avventurarsi in iniziative imprenditoriali tanto rischiose.
La decisione statunitense di ritirarsi dal PACG, nonostante l’Iran continui a rispettare la propria parte dell’accordo, ha posto gli alleati europei degli USA di fronte a un serio dilemma. Da una parte, la relazione transatlantica costituisce un interesse essenziale e di lunga data tanto per l’Unione europea quanto per i suoi singoli stati membri. Dall’altra, l’Europa non intende mandare a monte il processo multilaterale culminato nel PACG e i costanti vantaggi di non proliferazione garantiti e tuttora mantenuti ai sensi dell’accordo. Certamente, secondo l’Europa, l’accordo sul nucleare non ha ridotto molti aspetti della politica iraniana cui il Vecchio Continente guarda, come gli USA, con significativa preoccupazione. I test dei missili balistici e la fornitura di armi ad altri paesi della regione, il sostegno di Teheran al governo di Assad in Siria e le rivelazioni sul presunto coinvolgimento del governo iraniano in una serie di tentati attacchi terroristici e omicidi in territorio europeo a danno di dissidenti iraniani sono alcuni dei temi principali su cui l’Europa, come gli Stati Uniti, crede che l’Iran sia indubbiamente nel torto
A differenza dell’attuale strategia statunitense, tuttavia, l’Europa è disposta a tenere separato l’accordo sul nucleare iraniano da questi temi non correlati al PACG a condizione che l’Iran continui a rispettare i propri impegni ai sensi dell’accordo, nella convinzione che il proseguimento della cooperazione sul fronte cruciale della non proliferazione possa portare a discussioni più proficue con l’Iran su altri temi (la Repubblica Islamica, per esempio, ha intrattenuto una serie di colloqui con Regno Unito, Francia, Germania e Italia sul conflitto nello Yemen). Pertanto, anche se lo scorso gennaio l’Europa ha approvato sanzioni mirate contro alcuni agenti dei servizi segreti iraniani, nel corso dello stesso mese Londra, Parigi e Berlino hanno altresì concordato di istituire il nuovo meccanismo dello Strumento a sostegno degli scambi commerciali (INSTEX) al fine di agevolare gli scambi con l’Iran a partire dai generi di natura umanitaria (la cui vendita all’Iran, pur consentita in teoria, è spesso ostacolata nella pratica dalle sanzioni unilaterali statunitensi).
L’Europa, pertanto, si trova tra l’incudine e il martello: da una parte, infatti, subisce la crescente pressione di Washington, che preme affinché abbandoni un accordo che il Vecchio Continente continua a considerare un successo, mentre dall’altra è oggetto delle critiche sempre più aspre di Teheran, che l’accusa di non aver mantenuto in misura apprezzabile quella normalizzazione economica che era stata promessa. Quest’ultima dinamica potrebbe finire per indurre l’Iran a tentare una mossa azzardata al fine di testare la tenuta del PACG, nella convinzione che ciò potrebbe spingere l’Europa a raddoppiare gli sforzi per attenuare l’impatto delle sanzioni; ma con altrettanta facilità tale mossa potrebbe ritorcersi contro la Repubblica Islamica, avvicinando l’Europa alle posizioni statunitensi.
Infine, ci sono gli altri due membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Russia e Cina. Entrambi i paesi continuano a sostenere il PACG, e ciascuno di essi ha interessi strategici in Iran che travalicano il tema nucleare. È probabile, tuttavia, che l’Iran resti deluso se crede che la politica di “guardare a est” possa controbilanciare o compensare del tutto il deterioramento dei rapporti con l’Occidente, se non altro nell’eventualità di una nuova crisi nucleare.
Le relazioni intrattenute dall’Iran con la Russia dopo la rivoluzione del 1979 hanno oscillato tra l’asprezza, soprattutto negli ultimi anni, e periodi più costruttivi di impegno diplomatico. Tuttavia, il rapporto di Teheran con Mosca ha assunto un’importanza strategica particolare alla luce della guerra civile in Siria. I due paesi sono intervenuti a favore del governo di Assad, una posizione osteggiata dalla maggior parte della comunità internazionale, se non altro per i tragici costi umanitari del conflitto e i metodi brutali cui ha fatto ricorso il regime per mantenere il potere. L’azzardo congiunto di Mosca e Teheran si è dimostrato via via più vincente e ha indotto i due paesi a cooperare più strettamente, raggiungendo un livello definito “senza precedenti” da un diplomatico iraniano di lungo corso.
La guerra in Siria, inoltre, ha fornito terreno fertile a nuovi conflitti indipendenti, tra cui una situazione di stallo sempre più tesa tra Iran e Israele: oltre alla preoccupazione per il sostegno iraniano a Hezbollah in Libano e ad Hamas a Gaza, i timori israeliani per la presenza iraniana lungo tutto il confine nord-orientale del paese sono giunti a un passo dal punto critico. In questo caso, comunque, è stato chiaro che l’allineamento russo sulle posizioni iraniane non si spinge oltre. Più le rappresaglie militari tra forze israeliane e iraniane (o filo-iraniane) si fanno scoperte, più la Russia sembra intenzionata a muoversi su un terreno intermedio tra le due parti, condannando gli interventi israeliani ma dimostrandosi restia a schierarsi apertamente.
Ciò nonostante, le relazioni tra Russia e Iran presentano per Teheran un vantaggio che va oltre i campi di battaglia del Vicino Oriente. La Russia è uno dei pochissimi paesi a condividere l’interpretazione iraniana delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul programma missilistico iraniano: mentre gli Stati Uniti interpretano un passaggio cruciale della Risoluzione 2231 (“chiede”) come un’ingiunzione, Mosca la interpreta come un suggerimento. Grazie al potere di veto russo, l’Iran sa che almeno su questo tema i tentativi di Washington presso l’ONU di rendere perseguibili penalmente i lanci di missili balistici iraniani incorreranno in un efficace ostacolo procedurale.
Per l’Iran, le relazioni con la Cina vertono su un’unica questione essenziale: il commercio. La quota principale delle esportazioni di energia iraniana è diretta a est verso India, Corea del Sud, Giappone ma soprattutto Cina, che nel 2017 rappresentava sia il maggior partner commerciale dell’Iran sia la destinazione principale delle sue esportazioni. Lo scorso novembre, gli Stati Uniti hanno concesso ai quattro paesi asiatici una deroga per continuare ad acquistare petrolio iraniano per almeno sei mesi, a condizione che si impegnassero a ridurne progressivamente le quantità. Finora, sembra che la Cina abbia rispettato i termini imposti da Washington, non solo riducendo le importazioni di petrolio iraniano per un valore stimato del 27 percento dopo l’entrata in vigore delle sanzioni nel novembre del 2018, ma diminuendo anche le proprie esportazioni verso l’Iran. Gli interessi cinesi e iraniani coincidono sostanzialmente sulla base di operazioni commerciali reciprocamente vantaggiose anziché su considerazioni strategiche di natura più profonda, e per il momento sembra che i negoziati commerciali in corso tra Pechino e Washington si stiano ripercuotendo sul commercio cinese con l’Iran, dal momento che la Cina è decisa a non irritare troppo gli Stati Uniti. In altre parole, riporre eccessive speranze nel fatto che la Cina rappresenti un’ancora di salvezza presenta due svantaggi per l’Iran, che rischia di fornire a Pechino il potere di assicurarsi condizioni commerciali vantaggiose oppure di ridursi a danno collaterale nella guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti.
In un lungo comunicato sull’anniversario della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, che dalla morte di Khomeini nel 1989 ricopre il ruolo di Guida Suprema dell’Iran, ha osservato che “indipendenza significa la libertà della nazione e dello stato dai soprusi e dalle vessazioni delle potenze dispotiche del mondo”. “Non bisogna confondere l’indipendenza”, ha poi chiarito, “con la circoscrizione della politica e dell’economia del paese all’interno dei suoi confini”. Mentre la Repubblica Islamica entra nel suo quinto decennio di vita, resta da capire come farà a sviluppare la propria politica e la propria economia al di là di quei confini nazionali, senza dimenticare che il destino del paese non dipende solo dall’ostilità tra Iran e Stati Uniti, ma anche dalla rivalità tra le grandi potenze.
Naysan Rafati è l'analista iraniano di Crisis Group. La sua ricerca è incentrata sull'accordo nucleare iraniano e sulle politiche regionali dell'Iran. È entrato a far parte dell'organizzazione nell'ottobre 2017. Naysan ha scritto per diverse pubblicazioni tra cui Foreign Affairs, Foreign Policy, Le Monde Diplomatique e Financial Times.
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