Al netto dei tweet polemici e della retorica controversa di Donald Trump, la sua presidenza si è già dimostrata assai feconda di conseguenze, sia per la personalità dell’inquilino dello Studio Ovale sia per l’incertezza geopolitica del mondo contemporaneo. Trump si è insediato proprio nel momento in cui l’epoca della pax americana (coincidente in larga misura con il secondo dopoguerra) stava volgendo al termine. Era inevitabile che chiunque fosse stato il successore di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti avrebbe dato il tono all’era geopolitica a venire. Ebbene, finora questo tono è stato caratterizzato da una crescente ostilità (specialmente tra Stati Uniti e Cina) su numerosi fronti: commerciale, tecnologico e addirittura energetico. Ora che Trump si avvicina al giro di boa di metà mandato, è tempo di ripensare ad alcuni dei maggiori successi e insuccessi geopolitici conseguiti finora dalla sua amministrazione, come pure alle loro conseguenze per il futuro energetico del mondo.
Mentre gli oppositori di Trump sono convinti che non possa farne una giusta, i suoi più strenui sostenitori lo reputano incapace di sbagliare. La verità, come sempre, sta nel mezzo. Per quanto riguarda il sostegno al multilateralismo e al libero scambio come fini auspicabili in sé, Trump si è discostato in modo netto dai suoi predecessori (repubblicani e democratici in egual misura), ma la sua preferenza per gli accordi commerciali bilaterali e per la pressione esercitata sugli alleati tradizionali ha prodotto qualche indiscutibile successo a breve termine per gli USA, che hanno strappato concessioni ad alleati fedeli come Unione europea, Corea del Sud e Brasile. Trump è addirittura riuscito a rinegoziare l’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA) stipulato con Canada e Messico, una vittoria politica per Washington che sarebbe stata ardua da ottenere anche nelle circostanze migliori. Ma l’influenza di Trump sul mondo va ben oltre la stipula di accordi commerciali più favorevoli agli interessi statunitensi. Quando Trump è arrivato al potere quasi due anni fa, pochissimi leader mondiali ne condividevano le vedute nazionaliste e l’impostazione delle relazioni geopolitiche a fini scopertamente commerciali. In meno di 24 mesi, le politiche che mettono “il proprio paese al primo posto” sono state adottate da altri leader, tanto dov’era prevedibile (in paesi come Filippine, Turchia e Ungheria) quanto in paesi che hanno colto il mondo alla sprovvista (come Brasile e Italia).
La presidenza Trump ha sdoganato un tipo di politica identitaria che dal 1945 era stata in gran parte ignorata, ovvero la politica del risentimento: ed è un tipo di politica che sta acquistando slancio. Indubbiamente, Trump ha giocato un ruolo cruciale nella sua diffusione. Ma la presidenza Trump ha comportato costi significativi anche per gli Stati Uniti. Il tenore generale delle relazioni tra gli USA e i loro principali alleati tradizionali si è deteriorato sensibilmente, e non è affatto chiaro se e fino a che punto sarà possibile riparare quei rapporti ormai logori. La presidenza Trump è stata inoltre contraddistinta da decisioni politiche impulsive che hanno dimostrato la scarsa lungimiranza della strategia alla loro base: basti pensare alla decisione di Trump di ritirarsi dall’Accordo di Parigi sul clima. Lo stesso dicasi per il Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un colossale accordo di libero scambio che dovrebbe entrare in vigore a gennaio, anche dopo il ritiro dell’adesione statunitense. Senza gli Stati Uniti, però, il resto del mondo fatica a mantenere stabile il mercato petrolifero, sia perché gli USA sono a pieno titolo uno degli attori più importanti nel campo dell’energia, sia perché al momento i principali interessi statunitensi in politica estera sono incentrati su altri importanti produttori di petrolio in Medio Oriente. Per il momento, sembra che Trump abbia deciso di legare la propria sorte a quella del principe della Corona dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman (MbS), sostenendo la credibilità delle smentite da parte del principe ereditario di qualunque coinvolgimento nella vicenda dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi, nonostante la CIA stessa abbia accertato il contrario. Benché certamente gradito al regno saudita, il sostegno di Trump ne complica la politica petrolifera: Trump, infatti, vuole che i sauditi abbandonino l’impegno preso con l’OPEC per la riduzione coordinata della produzione al fine di mantenere elevato il prezzo del petrolio. Il problema è che, per garantire la stabilità fiscale, che a sua volta assicura al regno stabilità politica e sociale, ai sauditi i prezzi più elevati servono eccome (il brent a 70 dollari è la quota giusta). Le ripercussioni del caso Khashoggi e la prevista diminuzione degli investimenti esteri non fanno che rendere più difficile per i sauditi assicurarsi un afflusso regolare di proventi petroliferi. Se e quando i sauditi decideranno di procedere con i tagli alla produzione, Trump non ne sarà affatto contento. Ma probabilmente si morderà la lingua, considerato il suo altro centro d’interesse nella regione: l’Iran. Trump ha bisogno tanto di stabilità nel mercato petrolifero globale quanto di un fronte compatto contro Teheran, il che fa di Riad un alleato indispensabile per entrambi i fini. Ma non è affatto detto che l’aumento della pressione statunitense sull’Iran a colpi di sanzioni petrolifere spingerà il governo iraniano a cedere alle tensioni economiche offrendo ulteriori concessioni. Anzi, è più probabile che il conflitto nella regione si intensifichi. Tuttavia, l’amministrazione Trump intende proseguire la propria politica sull’Iran.
Washington farà pressioni sui paesi temporaneamente esentati dalle sanzioni USA sul petrolio iraniano affinché ne importino quote via via decrescenti; al momento, sembra che per il prossimo anno il mercato sia ben fornito, ed è per questo che l’OPEC+ sta valutando un’altra serie di tagli alla produzione. Nel frattempo, Trump prosegue l’impegno ad attenuare le misure restrittive sulla produzione energetica interna, consentire la trivellazione nei terreni di proprietà del governo federale (compresi quelli offshore), cancellare le politiche ambientali introdotte dalla presidenza Obama, ridurre l’aliquota d’imposta sulle società e ammorbidire la normativa federale sul risparmio di carburante: tutti provvedimenti che sono una manna per le compagnie petrolifere e del gas. Parallelamente, l’agenda commerciale di Trump, finalizzata a colpire la Cina e le importazioni di acciaio, rischia di frenare la domanda petrolifera globale (cosa che ha a che fare più che altro con la Cina), rendendo al contempo più costosa per i produttori petroliferi la costruzione degli oleodotti e delle infrastrutture necessarie (cosa che ha a che fare più che altro con l’acciaio). A complicare ulteriormente l’operazione, molti stati federali degli USA hanno manifestato l’intenzione di andare per la propria strada definendo autonomamente le rispettive politiche climatiche e ambientali in contrasto con l’amministrazione Trump, per esempio tentando di varare provvedimenti che avrebbero pesanti conseguenze sulle trivellazioni. Tutto questo per dire che, come la sua strategia geopolitica, anche la strategia energetica di Trump presenta pro e contro. Probabilmente, nel mondo imprevedibile di oggi, l’unica previsione attendibile è che ormai Trump non cambierà. Sta ai produttori di energia negoziare al meglio delle proprie capacità.
Ian Bremmer Presidente di Eurasia Group e GZERO Media, e autore del volume “Us vs. Them: The Failure of Globalism”, un best seller del New York Times pubblicato in Italia con il titolo di “Noi contro loro. Il fallimento del globalismo” (Università Bocconi Editore, 2018).
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