Con i paesi del Gulf Cooperation Council, gli investimenti cinesi nelle infrastrutture nell'ambito della Nuova Via della Seta.
di
Jonathan Fulton
21 marzo 2019
16 min di lettura
di
Jonathan Fulton
21 marzo 2019
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L’annuncio della Belt and Road Initiative (BRI) – La Nuova Via della Seta – nel 2013 ha segnato una svolta risoluta e decisiva nella politica estera cinese. La Cina, non essendo più disposta ad attendere dietro le quinte, secondo il presidente Xi Jinping si sarebbe messa a “cercare attivamente risultati concreti”. A cinque anni dal lancio dell’iniziativa, possiamo tracciare un primo bilancio del suo impatto. In alcuni stati e regioni, le ambizioni di Pechino si sono scontrate con sfide di natura politica ed economica. Negli Stati che si affacciano sul Golfo, un complesso di sicurezza regionale particolarmente instabile, la BRI è stata accolta in misura ampiamente favorevole. Le monarchie del Golfo riunite nella sigla Gulf Cooperation Council (GCC) - Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU] - intente ad attuare piani di sviluppo per diversificare le proprie economie, hanno cercato di attirare gli investimenti cinesi nell’ambito dei progetti BRI. Un tale consolidamento delle relazioni non è un’anomalia destinata a scomparire: anzi, la potenza della Repubblica Popolare Cinese nel Golfo è in ascesa.
La BRI affonda le sue radici nella “Go Out Policy” della Cina di metà anni Novanta, quando si era capito che per diventare competitive a livello internazionale le aziende cinesi avrebbero dovuto espandere i propri interessi e investimenti oltre il mercato interno. Ciò aveva portato all’aumento della presenza di imprese di stato in paesi e regioni dove la Repubblica Popolare non esercitava tradizionalmente grande influenza economica. Alla fine degli anni 2000, cittadini e attività cinesi erano presenti in tutto il mondo, mentre le compagnie avevano accumulato notevoli riserve in valuta estera, che nel 2013, al momento della presentazione ufficiale della BRI, ammontavano a circa 3.200 miliardi di dollari.
A quel punto, la struttura delle nuove vie della seta era già stata delineata in diverse regioni. Progetti come il Nuovo Ponte Terrestre Euroasiatico, il Corridoio Economico Cina-Pakistan e il Corridoio Economico Cina-Myanmar-Bangladesh-India risalgono a prima del lancio della BRI, definita da un osservatore “un nuovo slogan per cose che (i cinesi, ndr) vogliono fare da tempo.” La novità, tuttavia, consiste nel raggruppare tutti questi progetti sotto la stessa sigla. La Silk Road Economic Belt, la cintura euroasiatico terrestre, è stata lanciata durante un discorso di Xi Jinping in Kazakistan, mentre la Maritime Silk Road Initiative, la rotta marittima che attraversa l’oceano Indiano, è stata presentata un mese più tardi in occasione di un discorso al parlamento indonesiano. Nell'insieme, le due iniziative hanno fornito un quadro per comprendere l’espansione della Cina verso ovest.
In questa fase, l'aspetto della BRI che si sottolineava maggiormente era il carattere di iniziativa anziché di strategia. Mentre di solito si ritiene che le strategie vengano adottate contro terzi, le iniziative sono inclusive. Ed è questo il caso della BRI, dal momento che i dirigenti cinesi ne sottolineano l'apertura a tutti i soggetti interessati, e il ministro degli Esteri Wang Yi la definisce “una sinfonia, non un assolo cinese”. Inoltre, mentre ne vengono messi in risalto i vantaggi economici, l’hard power e gli aspetti militari spiccano per la loro assenza. Nel documento guida della BRI, “Vision and actions on jointly building Silk Road Economic Belt and 21st-Century Maritime Silk Road,” sono elencate cinque priorità di cooperazione (coordinamento delle politiche; connettività delle strutture; commercio senza impedimenti; integrazione finanziaria e legami tra i popoli) che mirano a mantenere una neutralità politica, sottolineando invece gli obiettivi economici e di sviluppo: il mantra di Pechino è infatti quello del “vantaggio reciproco”.
L’enfasi posta dalla BRI sullo sviluppo è fondamentale per comprenderne l’attrattiva per i paesi partner. Un rapporto dell’Asian Development Bank ha stimato che il gap infrastrutturale dell’Asia tra il 2010 e il 2020 ammonti a 8.000 miliardi di dollari, un deficit impossibile da sanare per gli istituti di credito esistenti (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Asian Development Bank ecc.) che non dispongono neanche lontanamente del capitale necessario. Per di più, le politiche e le procedure di tali istituti contribuiscono a rafforzare la sensazione che i progetti effettivamente finanziati siano lenti. Le aziende cinesi, al contrario, hanno dimostrato di saper condurre progetti infrastrutturali in maniera rapida e senza vincoli politici.
Quando, a ottobre 2018, la BRI è stata ufficialmente inclusa nella costituzione del Partito comunista cinese (PCC) in occasione del suo 19° Congresso, era chiaro: la BRI, legata alla leadership di Xi Jinping e del PCC, si sarebbe fatta. Certo, avrebbe subito vari aggiustamenti man mano che sarebbe stata testata sul campo in ambienti ad alto rischio in cui la Cina ha un’esperienza relativamente scarsa in termini di politica e sicurezza, e la sua reputazione è già stata messa in discussione, dal momento che i paesi più piccoli sono soffocati da un debito a lungo termine nei confronti della Repubblica Popolare. Tuttavia, la nuova iniziativa non avrebbe messo in discussione il fulcro della politica estera cinese, giacché essa esprime una visione della potenza e dell’influenza della Cina dal Mar Cinese Orientale al Mediterraneo. In sintesi, l’iniziativa Belt and Road rappresenta un aspetto così importante dell’ordine politico ed economico globale che in tutto il mondo stati e regioni stanno cominciando a rivedere le proprie politiche estere, o per adattarsi alla BRI o per tenerla sotto controllo.
Situate in una posizione ideale per trarre vantaggio dalla BRI, le monarchie del Golfo sono tra i paesi che vedono con favore un maggior intervento cinese. Come con altri stati coinvolti nell’iniziativa, le relazioni tra la Cina e i paesi del CCG precedono la BRI e l’instaurazione di rapporti bilaterali è in linea con le cinque priorità di cooperazione, il che facilita l’innesto della BRI su legami politici ed economici preesistenti.
Dal punto di vista cinese, le monarchie del Golfo offrono tre fattori unici e cruciali per il successo della BRI: geografia, energia e islam. Per quanto riguarda la geografia, le nuove vie della seta si basano sulla connettività e, data la sua rilevanza geostrategica, la Penisola arabica risulta particolarmente importante. Collegando l’Asia meridionale e centrale al Medio Oriente allargato e all’Africa orientale, gli stati del CCG costituiscono un tassello fondamentale della BRI. Dal momento che entrambi i lati della Penisola arabica presentano punti di congestione del traffico marittimo globale e il mar Rosso fornisce accesso al Mediterraneo, la regione rappresenterebbe una zona strategica per qualunque aspirante potenza dell’oceano Indiano.
Il fatto che la Penisola arabica ospiti il 30 percento delle riserve mondiali di petrolio è altrettanto centrale nella logica cinese. La Repubblica Popolare è diventata il primo importatore di petrolio al mondo e si prevede che continuerà a un ritmo di 11 milioni di barili al giorno di qui al 2030. Il forte interesse della Cina sul Golfo è motivato inoltre dal fatto che oltre la metà delle importazioni cinesi di greggio proviene dal Medio Oriente. Del resto, l’attrattiva è reciproca: le monarchie del Golfo vedono nella Cina un mercato a lungo termine in crescita per le loro esportazioni di energia. Mentre l’Arabia Saudita resta saldamente il primo o secondo fornitore di petrolio della Repubblica Popolare, con una quota pari al 16 percento delle sue importazioni, l’Oman ne rappresenta il 10 percento, gli EAU il 4 percento e il Kuwait il 3 percento. Dal momento che la Cina è intenzionata ad ampliare la quota del gas naturale liquefatto (GNL) nel suo mix energetico (l’obiettivo è il 10 percento entro il 2020), anche il Qatar sta diventando un’importante fornitore di energia della Repubblica Popolare, come dimostrato dal contratto della durata di 22 anni per la fornitura di GNL stipulato nel 2018.
Il ruolo della Cina nell’economia del CCG non si limita tuttavia al commercio energetico. Tra il 2000 e il 2017 gli scambi Cina-CCG sono passati da poco meno di 10 miliardi di dollari a quasi 150 miliardi di dollari l’anno. Gli investimenti diretti esteri cinesi negli stati del CCG sono a loro volta aumentati in maniera significativa, per un totale di oltre 60 miliardi di dollari investiti tra il 2005 e il 2017. A mettere radici nel Golfo è stato anche il settore finanziario, al punto da spingere le quattro principali banche cinesi ad aprire filiali a Dubai per gestire il numero crescente di transazioni. L’uso del renminbi cinese (RMB) è in aumento e sia il Qatar sia gli EAU hanno firmato accordi di swap valutario con la Cina. Attivato nel 2017, lo swap con gli EAU è stato utilizzato per compensare oltre 7 miliardi di dollari di transazioni nel 2018. I rapporti si sono ulteriormente consolidati con la visita del principe ereditario saudita Mohamed Bin Salman in Cina nel febbraio del 2019, durante la quale sono stati firmati 35 memorandum d’intesa per un valore di decine di miliardi di dollari. Parlando dello stato delle relazioni sino-saudite, MBS ha definito la Repubblica Popolare un buon amico e partner, affermando che “In tutti questi anni di scambi con la Cina, non abbiamo mai avuto problemi di alcuni tipo.”
A motivare ulteriormente l'interesse cinese nella regione è poi l’importanza della Penisola arabica, e in particolare dell’Arabia Saudita, per l’islam. Dal momento che la BRI attraversa molti paesi a maggioranza musulmana, la religione rappresenterà un fattore importante per il successo della sua realizzazione da parte cinese. La Cina stessa presenta una popolazione eterogenea di oltre 23 milioni di musulmani. Tuttavia, la situazione degli Uiguri nello Xinjiang, definita da Pechino un problema interno e una risposta a questioni di sicurezza nazionale, potrebbe minare gravemente la sua credibilità lungo la via della seta. Tuttavia, a eccezione della condanna espressa di recente dalla Turchia, la Repubblica Popolare non ha suscitato le critiche dei paesi a maggioranza musulmana, e il silenzio dell’Arabia Saudita, custode dei luoghi più sacri dell’islam, gioca a favore di Pechino. La posizione cinese si è consolidata con la recente visita del principe ereditario Mohamed Bin Salman, il quale ha ribadito che la situazione nello Xinjiang è una questione di politica interna e che “La Cina ha il diritto di condurre operazioni di antiterrorismo e de-radicalizzazione per la propria sicurezza nazionale.”
Le opportunità di investimento dei paesi islamici nei progetti BRI costituiranno a loro volta un elemento importante, del quale gli EAU sono pronti ad approfittare. Nel 2016, si stimava che il valore della finanza islamica ammontasse a più di 2.000 miliardi di dollari, un fattore importante da tenere in considerazione per gli investimenti nella BRI. Dubai ospita il più grande hub al mondo di Sukuk (obbligazioni islamiche), quotati al Nasdaq Dubai, e organizza da tempo conferenze annuali con le istituzioni cinesi per sondare la possibilità di partenariati nel settore dei servizi bancari e finanziari islamici.
Alla luce di questi fattori intrinseci, non sorprende che le monarchie del Golfo stiano consolidando le relazioni con la Cina nel contesto della BRI. Ciò è particolarmente importante in quanto tutti gli stati del CCG hanno avviato programmi di diversificazione economica: Vision 2030 in Arabia Saudita; Abu Dhabi 2030: New Kuwait 2035; Qatar National Vision 2030; Oman Vision 2040; ed Economic Vision 2030 in Bahrein. Con ciascuno di questi programmi, i paesi del Golfo puntano a rafforzare i settori privati e a diversificare le proprie economie, mentre le infrastrutture e i progetti edilizi sono essenziali per gran parte di quanto intendono realizzare. In quanto tale, la consolidata esperienza della Cina nelle infrastrutture del Golfo è ritenuta un modo per coordinare le “Vision” dei paesi del CCG con la BRI.
I principali indicatori delle ambizioni cinesi per la Penisola arabica nell’ambito della BRI sono la rilevanza di EAU, Arabia Saudita e Oman nei progetti di connettività del Medio Oriente. Durante l’incontro ministeriale del Forum di cooperazione Cina-Stati arabi (CASCF) del 2018, la Cina ha svelato l’approccio (dal nome non esattamente scorrevole) “Industrial Park – Port Interconnection, Two-Wheel and Two-Wing” per collegare stati e mercati all’interno della BRI. L’aspetto interessante è l’enfasi posta su parchi industriali e porti. Ciò significa che i complessi industriali sviluppati dai cinesi in Arabia Saudita, EAU e Oman verranno collegati ai porti regionali in Oman, EAU, Gibuti ed Egitto, dove la Repubblica Popolare sta mettendo a punto altre infrastrutture. Questa connettività fisica consentirà di collegare le catene di approvvigionamento in tutto il Medio Oriente, di cui naturalmente la Penisola arabica diventerà l’hub.
I punti nevralgici di tale approccio sono la Duqm Special Economic Zone Authority (SEZAD) a Duqm, nel sultanato dell’Oman, il complesso portuale di Khalifa ad Abu Dhabi, negli EAU, e Jizan, in Arabia Saudita. Ad attirare maggiore attenzione finora è stata la SEZAD. È almeno dal 2006 che il governo del sultanato porta avanti il progetto di Duqm, cittadina situata lungo il litorale del mar Arabico. Con una raffineria e il più grande centro di stoccaggio di petrolio nel Medio Oriente, la SEZAD rappresenta un hub energetico che consente di evitare lo Stretto di Hormuz. Oman Wanfang, un consorzio cinese, ha avviato progetti con la SEZAD per oltre 3 miliardi di dollari e ha firmato contratti che dovrebbero portare il valore degli investimenti cinesi a Duqm a superare gli 11 miliardi di dollari.
Ad Abu Dhabi, la Khalifa Industrial Zone Abu Dhabi/Khalifa Port Free Trade Zone è un altro complesso che unisce porto e parco industriale nel quale un consorzio cinese sta consolidando il proprio mercato. Nel 2017, la Jiangsu Provincial Overseas Cooperation and Investment Company Limited (JOCIC) ha firmato un contratto di locazione della durata di 50 anni e finora ha effettuato investimenti per oltre 1 miliardo di dollari. Tanto i funzionari cinesi quanto quelli emiratini hanno collegato la presenza della JOCIC ad Abu Dhabi alla BRI e al programma di sviluppo nazionale degli EAU, l’Abu Dhabi Economic Vision 2030.
Il terzo parco industriale cinese nella Penisola arabica è a Jizan, nel sud-ovest dell’Arabia Saudita, che sfrutta la costa saudita sul Mar Rosso per il collegamento con due progetti portuali cinesi: Port Said in Egitto, a nord del Canale di Suez sul Mediterraneo, e la base di supporto logistico dell’esercito cinese a Gibuti. Nell'insieme, questi tre parchi e complessi portuali costituiscono una manifestazione fisica della presenza della Cina nel Golfo, nonché il tessuto connettivo che colloca la Penisola arabica al centro della BRI nella regione MENA.
Alla luce della sensazione di disimpegno statunitense in Medio Oriente, per le monarchie del Golfo avere una potenza in ascesa come partner è ancor più gradito. L’incoerenza della politica estera statunitense nella regione, che ha caratterizzato l’intera Pax Americana, ha portato i leader del Golfo a adottare una strategia duplice: politiche estere più risolute e consolidamento dei legami con altre potenze. Tra queste, con la BRI la Cina offre il percorso articolato in modo più chiaro per stabilizzare lo statu quo nel MENA. L’accento posto sullo sviluppo economico senza vincoli di riforme politiche trova un'eco favorevole in tutta la regione. Sebbene la natura inclusiva della BRI conceda le stesse opportunità ai rivali degli stati del CCG nella regione, come Iran e Turchia, le monarchie del Golfo scommettono di avere di più da offrire a Pechino, e d'altra parte i progetti di parchi industriali e complessi portuali dimostrano che la Cina le ritiene i pilastri della BRI in Medio Oriente.
Insegna Scienze Politiche alla Zayed University, negli Emirati Arabi Uniti. È autore di “China’s Relations with the Gulf Monarchies” (Routledge, 2018).
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