La pandemia non segnerà l’inizio di un nuovo futuro energetico globale. Le economie necessitano ancora in larga parte di fonti energetiche tradizionali.
Non mi faccio illusioni sulla profondità delle prospettive storiche in un mondo in cui la capacità di attenzione dura appena il tempo di lettura di un tweet; eppure non mi aspettavo che la pandemia tuttora in corso fosse percepita quasi universalmente in modo tanto astorico, fatti salvi i riferimenti relativamente frequenti alla pandemia del 1918 (a causa del suo tasso di mortalità senza precedenti).
La breve durata e l’impatto
limitato della pandemia influenzale del 2009 possono spiegare perché questo
evento viene ignorato, ma non si può dire lo stesso dei due eventi più
rilevanti che hanno preceduto la pandemia attuale, ovvero l’influenza di Hong Kong del 1968-69 (causata
dal virus H3N2, che iniziò a diffondersi dalla Cina nel luglio del 1968) e l’influenza asiatica del 1957-58 (causata
dal virus H2N2, anch’esso proveniente dalla Cina). Come dimostrano i confronti
con il SARS-CoV-2 del 2020, entrambe
queste pandemie durarono a lungo ed ebbero gravi ripercussioni, delle cui
conseguenze sarebbe opportuno tener conto quando si valuta il Covid-19. Anche
basandosi sulle stime prudenziali delle morti in eccesso totali causate dai
virus (1,5 milioni per l’evento del 1957 e 1,1 milioni per quello del 1968), se
ne ricava che la mortalità era, rispettivamente, di 52 e 30 unità su 100.000.
Ciò significa che, per eguagliare il costo di quei due eventi in termini di
vite umane, il Covid-19 dovrebbe
provocare fino a 4 (e non meno di 2,3) milioni di morti. Ma il 17 luglio 2020 i
decessi da Covid hanno raggiunto le 600.000 unità: pertanto, se anche triplicassero,
questa pandemia resterebbe comunque
molto meno letale dell’evento meno virulento del 1968-69 e registrerebbe una
mortalità inferiore di oltre il 50 percento rispetto a quello del 1957-58.
Eppure, a differenza del 2020, né nel 1957 né nel 1968 ci fu alcun blocco
mondiale delle economie, le scuole rimasero aperte (fatto salvo qualche calo
circoscritto delle presenze), spettacoli teatrali ed eventi sportivi non furono
cancellati (le Olimpiadi si svolsero in Messico nell’ottobre del 1968) e
l’espansione del turismo internazionale proseguì ininterrotta. Se si esaminano
le statistiche economiche e di viaggio relative al 1957 o al 1968, non emerge
alcun calo degno di nota seguito da difficili riprese. Alla fine degli anni Cinquanta, i “World Economic Surveys” pubblicati annualmente dalle Nazioni Unite (ciascun numero lungo
circa 300 pagine) non contengono un singolo riferimento a pandemia, virus o
influenza e, benché nel 1957 l’Europa avesse sperimentato un eccesso di
mortalità sensibilmente più elevato rispetto agli Stati Uniti, il PIL continuò ad aumentare in tutte le
principali economie del continente. Un decennio dopo, la banca dati della Banca mondiale indica che nel 1968 l’economia globale è cresciuta di
circa il 6,3 percento, una cifra superiore a quelle registrate nel 1967 e
nel 1969. Le compagnie aeree di tutto il mondo registrarono un aumento costante
delle percentuali annuali passeggeri-chilometri sia nel 1957-58 sia nel
1968-69; inoltre, il 1958 aveva segnato l’inizio dei voli a reazione tra America
del Nord ed Europa e il primo aereo a fusoliera larga, il Boeing 747, volò per la prima volta nel 1969. Inoltre, il consumo globale di energia continuò ad
aumentare, segnando una crescita del 3,6 percento nel 1957 e del 5,4
percento nel 1958 e successivamente del 6 percento nel 1968 e di quasi il 7
percento nel 1969. Nel mondo, evidentemente, crescita economica e domanda di
energia continuarono senza interruzioni degne di nota, la connettività globale
si intensificava anziché ridursi, e nessuna delle due pandemie segnò alcuna
deviazione dai modelli di crescita stabiliti. I vari paesi non ebbero bisogno
di “riaprire” e di “tornare alla normalità”, perché lo svolgimento delle
normali attività quotidiane ed economiche avevano coesistito con un temporaneo
eccesso di mortalità. Al contrario, il SARS-CoV-2, il virus responsabile del
Covid-19, non ha solo dimostrato una mortalità indubbiamente superiore alle
aspettative, ma ha anche portato alla grande sospensione dell’attività globale
(arresto delle economie, chiusura delle scuole, divieto di assembramenti e
drastica riduzione degli spostamenti). E questa non è stata l’unica differenza
quando si confronta la pandemia in corso con i suoi due precedenti durante la
seconda metà del XX secolo.
Ora ci viene detto che questa prolungata e costosa sventura, che ha inevitabilmente ridotto il consumo di energia globale, rappresenta una gradita opportunità da sfruttare quale provvidenziale punto di partenza per accelerare la transizione verso fonti di energia rinnovabile. Qualcuno ha ritenuto che il calo temporaneo del 17 percento delle emissioni di CO2 fosse un evento da festeggiare e da trasformare in una tendenza permanente che porti alla completa decarbonizzazione in appena tre decenni. Una simile logica mi sfugge: per tornare alla normalità non sarebbe piuttosto il caso di invertire il più rapidamente possibile un calo che ha privato del reddito centinaia di milioni di persone, messo a repentaglio la stabilità dell’approvvigionamento energetico e alimentare globale, interrotto l’attività industriale ed esposto molti servizi (distribuzione, ristorazione, turismo) al rischio di ridurre in modo permanente l’occupazione? In ogni caso, anche una dimestichezza minima con le esigenze del consumo energetico moderno avrebbe imposto un po’ di cautela prima di vedere nel calo sensibile ma temporaneo nel consumo di energia un presagio di cambiamenti imminenti. Sarebbe bastato attendere qualche settimana per accorgersi che il calo del consumo di energia, che è stato forzato dai blocchi economici e dai blocchi dei trasporti, può essere invertito abbastanza rapidamente. La domanda di greggio in Cina, il primo paese a essere colpito dalla pandemia e il primo a esserne uscito, è risalita ai livelli precedenti al Covid-19 già prima della fine di maggio 2020, quando poco meno di 120 enormi navi-cisterna (forse la flotta di superpetroliere più grande di tutti i tempi a viaggiare contemporaneamente verso il maggior importatore di petrolio al mondo) stavano portando greggio a buon mercato all’economia in espansione del paese asiatico. Anche i dati sul consumo statunitense di gasolio e benzina per motori sono perfetti esempi di tale rapida ripresa. A febbraio del 2020 la vendita di benzina superava del 2,3 percento quella di febbraio del 2019; ad aprile era diminuita del 36,5 percento rispetto a un anno fa, ma a fine giugno era già risalita a meno del 10 percento sotto il livello di giugno 2019, mentre alla stessa data il consumo di gasolio era meno del 3 percento inferiore rispetto alla domanda registrata nell’ultima settimana di giugno del 2019. Questi sono solo due dei numerosi esempi che dimostrano che la pandemia in corso non accelererà affatto lo spostamento del consumo di energia globale su una nuova traiettoria. Questo spostamento è impossibile nell’immediato per il semplice fatto che la quantità di energia solare o eolica generata, seppur maggiore, non potrebbe essere utilizzata per distribuire negli ospedali miliardi di dispositivi di protezione individuale (come avviene dallo scorso marzo grazie ai voli cargo intercontinentali, che volano a una frequenza senza precedenti) né per trasportare generi alimentari da campi e mattatoi alla popolazione bloccata in casa: solo il cherosene per aerei, il gasolio e la benzina possono farlo, e questo predominio non svanirà nel giro di qualche anno, se non altro per ovvi motivi di scala. Tuttavia, qualcuno ha sostenuto che ciò dovrebbe cambiare nei mesi e negli anni a venire dal momento che bisognerebbe spingere di proposito la ripresa economica ad accelerare l’adozione di energie rinnovabili. L ’ultima edizione di “Energy Technology Perspectives” della IEA (l’Agenzia internazionale per l’energia), pubblicata nel giugno del 2020, presenta l’ennesimo “scenario di sviluppo sostenibile” (quante di quelle curve decrescenti in modo regolare abbiamo visto negli ultimi dieci anni?), che attribuisce la maggiore riduzione delle emissioni di carbonio all’accelerazione dell’elettrificazione di riscaldamento e trasporti e alla produzione su larga scala di combustibili a idrogeno e derivati dall’idrogeno a basso contenuto di carbonio. La IEA, tuttavia, ammette che tali trasformazioni devono affrontare molte sfide prima di diventare praticabili dal punto di vista commerciale. Mi permetto di sottolineare l’enormità e la natura inedita di queste sfide. Tanto per fare un esempio (e tralasciando l’idrogeno, il combustibile ideale la cui adozione commerciale di massa nel breve termine resta sfuggente come sempre), il Sustainable Recovery Plan (il piano della IEA per rilanciare la crescita economica) aumenterebbe la spesa per le reti di distribuzione elettrica (cui andrebbe un terzo dei 1.000 miliardi di dollari stanziati in tre anni), ma le nuove linee ad alta tensione sono forse il candidato meno promettente a ricevere investimenti rapidi e rilevanti, dal momento che prevedono lunghe tempistiche di progettazione e autorizzazione e che non c’è paese che non sia rimasto indietro più volte con l’attuazione dei propri piani di espansione delle reti di trasmissione. La Germania rinvia da anni la costruzione di linee di trasmissione sull’asse nord-sud che sono essenziali per l’ulteriore progresso della Energiewende, e senza nuove linee HVDC a lunga distanza gli Stati Uniti non potranno sfruttare appieno il loro immenso potenziale per la generazione di energia elettrica rinnovabile. Le Grandi Pianure sono la regione più ventosa e il Sud-ovest la più soleggiata del paese, mentre i maggiori centri di carico si trovano a centinaia o migliaia di chilometri di distanza: ma Clean Line Energy, la compagnia che pianificava di sviluppare cinque grandi progetti di trasmissione negli Stati Uniti, fallita nel 2019, e la Plains & Eastern Clean Line, che doveva diventare la struttura portante di una nuova rete statunitense entro il 2020 (la sua dichiarazione di impatto ambientale era già pronta nel 2014), si sono scontrate con il ritiro del Dipartimento dell’energia statunitense dal progetto, che pertanto potrebbe non vedere la luce nemmeno entro il 2030.
Per quanto riguarda invece l’impegno a finanziare l’accelerazione di tali trasformazioni, l’ultima serie di discussioni forzate al Consiglio europeo di Bruxelles (durata cinque giorni) ha generato un nuovo stimolo fiscale che si potrebbe rivelare “decisivo” e “senza precedenti” (cos’altro dovrebbero dire i suoi stremati artefici?), anche se ciò ha comportato (come la Reuters ha subito rilevato) dei tagli all’investimento proposto in fondi verdi. Ma la riduzione delle emissioni di carbonio dovute al consumo di energia nei paesi ricchi è un obiettivo che dovremmo perseguire a prescindere dal riscaldamento globale, soprattutto perché si tratta ancora di un consumo eccessivamente dispendioso e sistematicamente irrazionale. Qual è la logica alla base di una produzione di biocarburanti (la cui intensità di carbonio è solo lievemente inferiore a quella della benzina) che finiscono poi con l’alimentare SUV colossali? Che senso ha far guidare una Jeep Cherokee da due tonnellate (uno dei veicoli più venduti negli Stati Uniti) a una donna di 60 chili che va a fare compere? Abbiamo davvero bisogno di pomodori freschi coltivati in serra a gennaio, a un costo energetico 50 volte superiore a quello di un raccolto estivo? E qual è il ritorno energetico sul trasporto aereo di fagiolini (composti per il 91 percento d’acqua) dal Kenya all’UE durante l’inverno? Per cominciare, non avremmo dovuto introdurre tali eccessi e irrazionalità del consumo di energia nei paesi ricchi: non era affatto necessario sostituire le berline con i SUV, così come non è indispensabile assumere vitamina C da pomodori freschi a gennaio. E perché non abbiamo adottato decenni fa una delle misure di efficienza più semplici, ovvero progettare edifici nelle zone con climi freddi prevedendo interventi di super-isolamento e finestre a triplo vetro? L’eliminazione su larga scala (o almeno il sostanziale contenimento) di simili sprechi dovrebbe contribuire ad aumentare la razionalità e ridurre l’intensità di carbonio del consumo di energia dei paesi ricchi. Da questo punto di vista, le più recenti valutazioni della IEA sono corrette: il singolo maggiore guadagno può provenire da una maggiore efficienza. Ma la situazione è ben diversa nei paesi meno industrializzati. Nel 2020, metà dell’umanità vive in paesi dove la fornitura pro capite annua di energia primaria è inferiore a 50 GJ e il 40 percento della popolazione mondiale (3,1 miliardi di persone) ha accesso a meno di 25 GJ pro capite l’anno, tasso che sia la Germania che la Francia avevano raggiunto prima del 1860. Per avvicinarsi al livello minimo di un tenore di vita dignitoso, quei tre miliardi di persone devono almeno raddoppiare o triplicare il consumo di energia pro capite e, benché moltiplicare la fornitura di energia elettrica sia di importanza cruciale, ciò di cui hanno più bisogno è la produzione di maggiori quantità di cibo e la costruzione di infrastrutture essenziali. Ciò non è possibile senza un aumento significativo della sintesi di concimi azotati (il cui impiego medio nell’Africa subsahariana è meno di un quarto rispetto al livello dell’UE), della produzione di acciaio primario (il consumo pro capite di prodotti finiti di acciaio nell’UE supera di dieci volte la media africana) e di cemento (la cui offerta pro capite nell’UE supera di oltre sei volte quella dei paesi africani) necessario per edifici, dighe, infrastrutture di trasporto, produzione industriale e trasmissione di energia elettrica. Tutti questi prodotti dipendono da immissioni su grande scala di combustibili fossili (gas naturale per la sintesi dell’ammoniaca con il processo Haber-Bosch; coke per il ferro da altoforno o gas naturale per la riduzione diretta del ferro; vari combustibili liquidi e solidi per la produzione di cemento) e nessuna di queste industrie dispone di alcuna alternativa rinnovabile utilizzabile nell’immediato e alle quantità richieste e che sia pronta a produrre da decine a centinaia di milioni di tonnellate di prodotti di cui i paesi in via di sviluppo avranno bisogno ogni anno. La crescita della Cina dopo il 1990 non si è basata sull’eolico e sul solare, ma sul carbon fossile: per portare i suoi 1,4 miliardi di abitanti dai (circa) 25 GJ pro capite del 1990 ai (circa) 100 GJ pro capite del 2019, il paese ha quasi quadruplicato il consumo di carbone, quasi decuplicato il consumo di greggio e aumentato di quasi venti volte la combustione di gas naturale, e questi aumenti hanno fatto più che quadruplicare le emissioni di carbonio cinesi, che sono passate da 2,3 a 9,8 Gt/anno. E questo ha riguardato l’attuale popolazione di 1,4 miliardi di persone, il che significa che se i 3,1 miliardi di persone che vivono nei paesi attualmente a basso consumo di energia dovessero fare anche solo metà di quello che ha fatto la Cina, la loro domanda complessiva di carbon fossile sarebbe superiore a quella della Cina nel periodo successivo al 1990!
Farsi guidare dal velleitarismo non è mai la strategia migliore per una politica pubblica efficace, specialmente in questioni che riguardano le basi vere e proprie della civiltà moderna. La produzione di energia senza emissioni di carbonio sarà anche fortemente auspicabile, ma chi afferma che possiamo trasformare completamente il sistema energetico globale nel giro di due o tre decenni non può limitarsi alla semplice presentazione dell’ennesimo scenario ipotetico con una curva regolare motivato da obiettivi fissati arbitrariamente e con cifre altrettanto arbitrarie. Quello che devono fare innanzitutto è spiegare in modo convincente come eliminerebbero entro il 2050 la dipendenza dei paesi ricchi dai combustibili fossili (che attualmente costituiscono l’80 percento della loro fornitura di energia primaria) e, cosa ancor più importante, devono dimostrare come innalzerebbero (raggiungendo anche solo la metà del livello attuale cinese) il tenore di vita della metà povera dell’umanità senza ricorrere al carbone fossile.
È professore emerito presso l’Università di Manitoba, Winnipeg, Canada. Ha pubblicato 37 libri con particolare attenzione agli studi interdisciplinari dei progressi energetici e tecnici. È socio della Società Reale del Canada (Royal Society of Canada), membro dell’Ordine del Canada (Order of Canada). Nel 2015 ha ricevuto il premio OPEC per la ricerca.
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