Dopo le dimissioni di Theresa May e la salita al governo di Boris Johnson la situazione si è ulteriormente complicata: il tentativo del neo primo ministro di sospendere il Parlamento per forzare un’uscita senza accordo si è concluso in un clamoroso fallimento, mentre la proposta per un nuovo accordo con l’Unione Europea presentata il 2 ottobre difficilmente sarà accettata da Bruxelles - non è in realtà supportata nemmeno dallo stesso Johnson che l’ha presentata e in molti, tra analisti e funzionari europei, la considerano più una provocazione che una reale proposizione. Di fronte al rischio crescente di un ulteriore rinvio della data di uscita, al momento prevista per il 31 ottobre, o di una no deal Brexit, il futuro del Regno Unito è instabile come mai era stato negli ultimi cinquant’anni.
Il suo settore energetico, per il suo ruolo chiave e la sua inerente fragilità, è appunto uno di quelli messi più a rischio da questa incertezza. L’effetto Brexit è già evidente sul breve, medio e lungo termine, e potrebbe peggiorare tanto in caso di no deal, che di ulteriori rinvii. Tre i settori più colpiti: l’industria del petrolio, la protezione dell’ambiente e il mercato energetico.
Il 2 agosto 2019 il Sunday Times pubblicava un documento riservato del governo britannico denominato “Operazione Yellowhammer”. Conteneva le conseguenze ipotetiche – e devastanti – di una no deal Brexit, con riferimenti limitati al settore energetico. Un punto, il numero 15, era però cancellato, e così rimaneva anche dopo la pubblicazione ufficiale del documento da parte del governo britannico a settembre “per ragioni di sensibilità commerciale.” Come rivelato poi a metà settembre dal reporter del Sunday Times Rosamund Urwin, il punto 15 era dedicato al destino delle raffinerie britanniche dopo la Brexit senza accordo, il settore che, secondo il documento, sarà in realtà uno di quelli più duramente colpiti. Il quadro presentato dal testo è in effetti preoccupante: Le tariffe europee rendono le esportazioni di petrolio verso l’UE non competitive. […]Questo porta a perdite finanziarie significative e all’annuncio della chiusura di due raffinerie (e alla transizione verso terminal di importazione) e a perdite dirette di posti di lavoro (circa duemila). I conseguenti scioperi alle raffinerie porterebbero all’interruzione della disponibilità di carburante per 1-2 settimane nelle regioni direttamente fornite dalle raffinerie.
La Brexit si inserisce infatti in un momento di particolare crisi del settore petrolifero del Mare del Nord, colpito dai bassi prezzi del petrolio e da crescenti costi di gestione dovuti anche all’invecchiamento delle strutture e alla necessità di dismissione di molte piattaforme. Le raffinerie su cui converge il petrolio del Mare del Nord, come quelle di Middlesbrough in Inghilterra o Grangemouth in Scozia, sono da anni al centro di forti scontri per la rinegoziazione di contratti che il management di compagnie come Ineos ritengono troppo favorevoli per le nuove condizioni di mercato. Un problema di importanza cruciale per tutto il paese però, perché le raffinerie impiegano direttamente migliaia di persone (nell’area di Grangemouth oltre tremila), in alcune delle regioni del Regno Unito ancora fortemente colpite dagli effetti della deindustrializzazione di epoca thatcheriana. Una no deal Brexit potrebbe esasperare questa crisi, rendendo più costose le importazioni di idrocarburi, necessarie vista la decrescente estrazione nel mare del Nord, e riducendo le esportazioni verso l’Europa, di fatto minando la produzione per il mercato domestico.
Per alcuni proprietari di raffinerie la Brexit sembra però una benedizione; è il caso di Jim Ratcliffe, terzo uomo più ricco del Regno Unito e proprietario dell’azienda petrolchimica Ineos. Ha iniziato la sua carriera di Brexiter spendendosi ampiamente nel periodo pre-referendum per l’uscita dal Regno Unito nell’ottica di abbandonare quelle che ha definito la “folle tassazione green” dell’Unione. Ha poi lavorato su più fronti negli ultimi quattro anni perché il paese abbandonasse gli standard e le regole europee per prevenire l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, minacciando altrimenti di chiudere alcuni dei suoi impianti – gli stessi responsabili tra il 2014 e il 2017 di 176 violazioni secondo l’Agenzia europea dell’ambiente. La Brexit, particolarmente se senza accordo, potrebbe facilitare i suoi propositi e quelli di altri imprenditori, di fatto rappresentando una minaccia per la protezione ambientale nel paese: non solo allontanerà il Regno Unito dall’Unione Europea, la prima promotrice di ambiziose leggi a difesa dell’ambiente, ma fomenta un rallentamento economico nel paese (già in corso), che porterà Londra a dare maggiori concessioni alle aziende per promuovere investimenti o, semplicemente, per convincerle a non abbandonare il paese. Questa situazione non si riflette però solo sull’inquinamento, ma anche nella lotta al cambiamento climatico; un ambito in cui il Regno Unito ha sempre vantato grandi ambizioni, ma pochi risultati. Il paese infatti mancherà l’obiettivo per le rinnovabili al 2020 ed è drammaticamente indietro per quelli relativi alle emissioni e all’efficienza energetica per il 2030 (riguardo ai quali, per via della Brexit, ancora non ha però confermato il proprio impegno). Non è così chiaro come il paese possa proseguire sulla via della decarbonizzazione in questo fuoco incrociato, tra una situazione di partenza non ideale, le minacce alla propria sicurezza energetica e i costi crescenti per consumatori e industria.
L’altro riferimento all’energia in “Operazione Yellowhammer” è infatti dedicato ai prezzi dell’energia; il punto 5, pur negando la possibilità di interruzioni alla fornitura, mostra la reale possibilità di aumenti significativi dei costi di gas ed elettricità per l’industria e per i consumatori, con la possibile uscita di operatori dal mercato che fomenterà ulteriori problemi a livello politico ed economico. La Brexit infatti acuisce i problemi già esistenti nella struttura del mercato energetico britannico, dominato dall’oligopolio di sei compagnie, accusate in numerose occasioni di agirare come un cartello per un aumento sincronizzato dei prezzi. La recente apertura del mercato britannico anche ad altri operatori è stata garantita principalmente dall’applicazione di regole europee, in particolare il Terzo Pacchetto per l’energia. L’uscita del Regno Unito dall’UE minaccia l’espansione di questa prima, timida apertura, aggravando i problemi da questa derivati. Non si tratta solo dei prezzi per l’energia più alti, ma di una capacità di generazione per la Gran Bretagna da anni insufficiente, generata da una scarsità di investimenti di cui l’oligopolio è in buona parte responsabile. Il paese è così in costante rischio blackout da oltre un decennio – una minaccia reale, vista l’interruzione di fornitura elettrica che ha colpito tutto il territorio nazionale il 9 agosto 2019. Il White Paper per la pianificazione energetica a lungo termine, atteso da anni, è stato posticipato a causa della Brexit, mentre l’incertezza sul futuro del Regno Unito crea sfiducia sugli investimenti rinnovabili (e non solo) che dovrebbero garantire l’espansione della capacità britannica – nel 2018 la Gran Bretagna ha perso un posto nel Renewable Attractivness Index pubblicato da Ernst&Young proprio a causa delle preoccupazioni legate alla Brexit. Non solo così il Regno Unito rischia di perdere il treno della transizione energetica e del boom delle rinnovabili, ma anche di scontare tutto questo direttamente nella sua capacità produttiva.
Tutto questo ha delle conseguenze non solo per il paese nel suo insieme, ma anche a livello delle nazioni che lo compongono. La Scozia rischia di non sfruttare al pieno la propria ricettività agli investimenti rinnovabili per via della Brexit, in un momento chiave per l’espansione della propria capacità eolica, in crescita ad una velocità tra le più rapide in Europa. Questo accresce la già forte insofferenza di Edimburgo nei confronti sia della Brexit che dell’atteggiamento di Westminster, che tanto durante l’amministrazione May che con quella Johnson ha mostrato di tenere in poca considerazione l’opinione dei governi locali del Regno Unito. Se l’aspetto energetico della Brexit promuove ulteriormente il desiderio scozzese di indipendenza, aumenta allo stesso modo le tensioni con l’Irlanda. Il paese è infatti collegato al resto dell’UE solamente tramite un interconnettore con il Regno Unito, l’East West, e il bilanciamento del suo sistema energetico (alimentato al 30% da rinnovabili) è legato a doppio filo a quello britannico. La paralisi della pianificazione energetica britannica minaccia così anche l’espansione della capacità rinnovabile irlandese e la stabilità del suo sistema energetico stesso, accendendo le tensioni già esistenti per la questione chiave del confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord nel post Brexit.
L’impatto sull’energia dell’uscita del Regno Unito dall’UE rischia così di restituire un paese ancora più diviso, instabile e spaccato a livello sociale: problemi su cui non pesa solo il no deal, ma anche l’incertezza dei continui rinvii della data di uscita che paralizzano la discussione politica nel paese su temi al di fuori della Brexit. Il Regno Unito dovrà quindi prendere una decisione a breve, a prescindere dalla posizione europea. Un brusco cambio di rotta rispetto all’incertezza degli ultimi quattro anni, che però il governo Johnson sembra tutt’altro che in grado di prendere, e che forse potrà essere solo garantita da nuove elezioni.
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