Dalla caduta del Muro di Berlino, ma soprattutto da dopo i grandi accordi sulla liberalizzazione del commercio mondiale nei primi anni ’90, il Golfo ha conosciuto un trentennio di straordinaria crescita economica e di continua espansione del proprio ruolo geopolitico.
Basta dare un’occhiata alla carta geografica per intuire come la Penisola sia oggi la piattaforma naturale di interconnessione delle rotte che collegano i nuovi giganti asiatici con il mercato europeo - e tramite il Corno – con quello africano, e quanto sia strategico il controllo e il posizionamento di ciascuno Stato nei due corridoi marittimi che la costeggiano, gli Stretti di Hormutz e di Bab el Mandeb.
Il Golfo esporta energia per oltre 1/5 del valore totale degli idrocarburi esportati a livello mondiale ed è al centro di un’imponente rete di scambi commerciali oltre ad essere un importante tassello nella logistica delle merci asiatiche in transito verso l’Europa, grazie a un fiorire di zone franche con forti incentivi fiscali. Basti pensare che quasi il 20 percento delle importazioni della regione è poi riesportato altrove. Attrae investimenti, sviluppa sofisticati servizi finanziari, esercita un crescente fascino come destinazione turistica con le proprie architetture iconiche e un calendario fittissimo di eventi sportivi, musicali e culturali. L’Expo di Dubai nel 2020 e i Mondiali di Calcio in Qatar nel 2022 sono la certificazione di una centralità fortemente voluta e conquistata.
La trasformazione della regione è stata impressionante e tutti i Musei di Storia Nazionale del Paesi del Golfo la celebrano assieme alla lungimiranza delle famiglie regnanti: dalle vecchie foto in bianco e nero delle imbarcazioni tipiche, dei pescatori di perle, degli ufficiali inglesi portati a spalla sul bagnasciuga per non bagnarsi gli stivali, alla ricchezza attuale generata dalla stagione del petrolio, traguardando già il futuro in costruzione, quello della diversificazione economica, del post-oil, della tecnologia diffusa, delle smart cities e della smart education.
Se nella stagione “pre-oil” il Golfo era stato regione di protettorati britannici (un investimento a basso costo sulle famiglie più potenti affinché mantenessero l’ordine e tutelassero le basi commerciali dell’Impero), e da dopo la Seconda Guerra Mondiale – in seguito allo storico incontro fra Roosevelt e Abdulaziz Ibn Saud – esso aveva scelto la “oil for protection” americana, l’ultimo ventennio segna l’ingresso nella regione di nuovi attori, esclusi nei periodi precedenti.
Il primo, silenzioso, protagonista è, con poca sorpresa, la Cina. E di vero protagonista si tratta. Pechino è il secondo importatore di energia dalla regione, il primo esportatore di beni nella regione e, negli ultimi anni, anche tra i primi investitori. Il Presidente Xi ha ricevuto re Salman a Pechino nel 2017 e ha siglato accordi per 65 miliardi di dollari, visitando poi gli Emirati l’anno seguente. La Cina chiama “Western Asia” ciò che per noi è Medioriente, e considera il Golfo la penultima tappa della propria Belt and Road: del resto, il 90 percento delle merci cinesi viaggia via mare e gli Stretti del Golfo sono perciò uno snodo imprescindibile. Si tratta di una strategia economica sostenuta da una dottrina politica e, recentemente, anche da una discreta presenza militare: nel 2016, la Cina ha adottato un nuovo “Arab Policy Paper”; l’anno successivo ha inaugurato la prima base militare nella regione, a Gibuti. Anche nel Golfo, Pechino si offre come partner cooperativo di lungo termine, senza vincoli ideologici, un amico leale, allergico ai cambiamenti, paziente, senza l’ambizione di innervosire i 40.000 militari americani tuttora posizionati nelle basi terrestri e sulle due portaerei stazionate nella regione.
Con meno forza e continuità strategica, si è affacciata recentemente anche l’India. Dehli sta provando a controbilanciare la ragnatela della Belt and Road cinese con il cosiddetto “Asia Africa Growth Corridor”, una iniziativa in partnership col Giappone, che ha individuato nei porti omaniti la porta di ingresso nella regione, e nel corridoio energetico fra Duqm e il porto di Chabahar in Iran un percorso alternativo ai due Stretti già troppo affollati.
Con grande capacità tattico-strategica e una navigazione di basso profilo, nei giochi della regione si è infine affacciata la Russia. Mosca non dispone delle risorse finanziarie cinesi e sa che una propria presenza di tipo militare si collocherebbe ben oltre le linee rosse di Washington. Al contempo, il lento ritiro strategico americano dopo troppi e costosi interventi, ma soprattutto la leale collaborazione offerta recentemente da Mosca all’Opec per contrastare la sfida del tight oil a stelle e strisce e stabilizzare il prezzo del petrolio tramite tagli concordati della produzione, ha dato alla Russia la possibilità di superare il “confine” politico invisibile storicamente fissato a Damasco, confine che più di un regnante ha già varcato anche nel senso opposto, recandosi per la prima volta a visitare il presidente Putin.
Il Golfo è dunque il nuovo “must-be place” del mondo globalizzato. Mentre Regni, Sultanati ed Emirati collaborano ma anche competono fra loro nella nuova geopolitica delle infrastrutture e dei porti, nella diplomazia culturale, nella ricerca di nuove tecnologie, nel soft power religioso delle proprie scuole coraniche e in quello mediatico delle proprie emittenti satellitari, i nuovi attori del pianeta cercano qui una posizione di rilievo investendo risorse economiche e politiche. Se anche la stagione del petrolio avesse iniziato la sua transizione, a queste latitudini ci si sta già preparando per il tempo che viene.
È direttore Relazioni Internazionali di Eni. Dal 1996 al 2015 è stato membro del Parlamento Italiano ed Europeo. A Bruxelles si è invece occupato di Affari Economici e Monetari, e di Affari Esteri. È stato anche Vice Ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale. Ha svolto attività di docenza presso l’Università di Firenze, l’Overseas Studies Program della Stanford University e altre università straniere.
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