Dopo i porti, le ferrovie e le autostrade, a guidare il prossimo cambiamento epocale saranno le reti dell’energia pulita.
di
Davide Perillo
08 febbraio 2021
11 min di lettura
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Davide Perillo
08 febbraio 2021
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Scusi, ma perché è tornato in Italia? “Ho un’anima italiana. Volevo che i miei figli facessero l’esperienza di vivere all’estero e qui c’è una capacità unica nel combinare umanesimo e talento tecnologico, radici e futuro”.
Alec Ross, 49 anni, americano di Charleston (West Virginia), da pochi mesi Visiting Professor alla Bologna Business School, ha origini abruzzesi e un passato che ha già incrociato più volte il nostro Paese. Ci ha trascorso un anno con i nonni, da bambino, e un altro da studente di Storia medievale proprio a Bologna. Poi è tornato per diventare, nell’ordine: imprenditore hi-tech, consigliere per l’innovazione di Barack Obama, advisor di Hillary Clinton (allora Segretario di Stato) sugli stessi temi. E autore di un best seller globale come Il nostro futuro (Feltrinelli), uscito nel 2016 ma da rileggere ora, per la lucidità con cui parla di Big Data e intelligenza artificiale, lavoro che cambia e nuova geopolitic.
Il tema dell’energia e della sostenibilità in quelle pagine si affaccia qua e là, senza un capitolo ad hoc. “Ma sarà molto presente nel prossimo libro, che ho quasi finito”. Il titolo inglese è The Raging 2020s, qualcosa come I furiosi Anni Venti (del Duemila, ovviamente). “È sul contratto sociale, sul rapporto da riscrivere tra governi, aziende e cittadini. Molti dei problemi che ci troveremo ad affrontare nel futuro prossimo non riguardano solo un aspetto: richiedono un approccio comune. Diventa difficile gestirli, se manca l’equilibrio tra questi tre soggetti, e noi lo abbiamo perso. Bisogna tornare a lavorare insieme”.
D: Perché l’energia è una sfida per tutti e tre?
R: Dobbiamo fare in modo che lo sviluppo globale punti sulle energie sostenibili, non c’è dubbio su questo. Per arrivarci servono investimenti miliardari: non puoi fare un piccolo programma qui, un altro là. C’è bisogno di progetti comuni e di tanti, tantissimi soldi. Sia per creare centri di produzione di energia pulita, sia per modernizzarne la distribuzione, che è un aspetto altrettanto importante. Questo tocca ai governi: devono investire centinaia di miliardi, per creare le reti di energia del ventunesimo secolo.
Investire sull’energia pulita è la cosa migliore che si possa fare per tutti: aziende, governi e cittadini.
Alec Ross
D: Eppure non tutti ne sembrano consapevoli: gli stessi Stati Uniti, per esempio, forse potevano fare di più anche prima di Donald Trump…
R: Gli Usa non hanno assunto una leadership nel campo dell’energia pulita, soprattutto perché molta gente non si rende ancora conto degli effetti del cambiamento climatico. Non li avverte così gravi come quelli della crisi economica. È vero, sul clima c’è tanta divisione negli Stati Uniti: Gli europei sono più sofisticati nell’affrontare il problema, mentre noi lo abbiamo politicizzato molto. Bisogna ripensarlo dalle fondamenta. Ed è impossibile se si resta in termini di noi e loro. È un cattivo binario. Investire sull’energia pulita è la cosa migliore che si possa fare per tutti: aziende, governi e cittadini.
D: Perché?
R: È come la costruzione delle autostrade nel secolo scorso: se migliori i commerci e faciliti gli spostamenti della gente, modernizzi l’economia. Lo abbiamo fatto nel diciottesimo secolo investendo nei porti, che hanno permesso di muovere merci e persone per il mondo e hanno piantato le basi per la globalizzazione. Poi nel diciannovesimo con le ferrovie: stesso discorso. Nel ventesimo, appunto, sono arrivate le reti autostradali. Adesso tocca ai dati e all’energia. Dobbiamo costruire le infrastrutture necessarie a distribuire energia pulita ovunque. Costa molto, certo. Ma a medio e lungo termine paga moltissimo.
D: Un suo tweet recente diceva che “essere pro-business o pro-ambiente è una falsa scelta: ciò che è buono per l’ambiente, è buono per il business...”
R: Appunto. Guardi all’Italia di oggi. Il caldo della Sicilia è uguale quello del Nord Africa di 10-15 anni fa. Il clima di Roma corrisponde a quello della Sicilia di allora. La Lombardia ha le temperature che prima aveva Roma. È un dato di fatto, e l’effetto sull’economia è importante in tutti i settori. Tempo fa parlavo con Rossana Gaja, figlia di Angelo, uno dei maggiori produttori vinicoli del Piemonte. Le ho chiesto: qual è la differenza più grande tra il tuo lavoro e quello di tuo padre? La risposta è stata netta: “Il cambiamento climatico”. Vuol dire avere a che fare con nuovi insetti, altri rischi per le viti, diversi metodi di coltivazione… Un impatto enorme, insomma. L’energia pulita non è solo una questione verticale: è qualcosa che c’entra con tutti i settori.
D: È evidente che non si tratta solo di investimenti e di leggi, ma anche di comportamenti personali. Cosa serve per aiutare la gente a cambiare abitudini?
R: Domanda difficile, ci sono tante variabili. Se chiede a un americano sotto i 30 anni qual è la sua preoccupazione numero uno, ti risponderà quasi sicuramente: il cambiamento climatico. Sopra quell’età, no. È una questione generazionale, ma anche di educazione. Più è alto il tasso di istruzione, più il tema è sentito. I giovani istruiti da noi hanno una sensibilità su questo tema abbastanza simile a quella degli europei, ma c’è tanto lavoro da fare.
D: Alla fine del libro dice che “il lavoro più importante per preparaci al futuro è essere genitori”. Ovvero, educare. Quando parla con i suoi figli, quali sono i tasti che tocca per sviluppare la loro attenzione a questi punti?
R: Credo ci siano due cose da tenere presente. Primo: è una questione enorme. Come si fa a renderla comprensibile ai ragazzi? Io ho dei figli adolescenti. Più che le spiegazioni, è il tuo comportamento a incidere. Per esempio, sulla raccolta differenziata in casa abbiamo un atteggiamento quasi religioso. Stiamo molto attenti a non sprecare. Nulla, neanche il tempo. E loro vedono come ti comporti, quanto contano per te certi aspetti… Arriva fino a come porti fuori la spazzatura la sera.
L’ambiente non è la fissazione di una parte politica, ma qualcosa di ragionevole e necessario per le nostre vite.
Alec Ross
D: E la seconda cosa?
R: Giudicare, ragionare assieme sugli effetti del cambiamento climatico. Vedi gli uragani e le inondazioni che sempre più spesso colpiscono anche gli Stati Uniti, e cerchi di fargli capire la connessione tra quello che succede e il cambiamento climatico. E guardi che capiscono benissimo. Se affronti la questione solo da un punto di vista scientifico, con spiegazioni teoriche e via dicendo, funziona poco. Ma se gli mostri dei video con gli effetti sugli animali, per dire, si rendono conto immediatamente.
D: Torniamo alla politica. Nei quattro anni di Trump, gli Usa hanno perso molto tempo su questi temi. Cosa cambierà con Biden? Ha annunciato il rientro immediato negli accordi di Parigi, ma dopo?
R: La politica di Biden sarà molto aggressiva su questo. Per la sua amministrazione, il cambiamento climatico è uno dei tre temi principali, assieme alla risposta al Covid e al ripristino del ruolo dell’America nel mondo. Non sarà facile. Sul clima, gli Usa hanno sempre seguito una strada molto graduale: un piccolo passo, poi un altro. Non si sentiva l’urgenza. E abbiamo perso parecchio tempo, è vero. Ora servono decisioni drastiche: dai piccoli passi a un grande salto. Il presidente ne è consapevole. Vedremo se riusciranno a farlo.
D: Se fosse un suo advisor, qual è la prima mossa che gli consiglierebbe?
R: Investire. Ma lo sa già. Ha un piano di interventi da 1.900 miliardi di dollari. Vuole spenderne subito almeno mille in infrastrutture, per stimolare l’economia. E 4-500 miliardi serviranno ad avviare gli investimenti necessari al Green New Deal, alla transizione verso un’altra energia. Sono cifre alte, ma indispensabili per fare il salto che dicevamo. C’è ancora molta gente, come Mike Bloomberg o altri repubblicani, convinta che il Green New Deal sia qualcosa di fantasioso, una specie di mania bizzarra di una fetta dei democratici. Invece è completamente razionale. La cosa più urgente, forse, è proprio quella: farlo entrare una volta per tutte nella mentalità comune, renderlo davvero mainstream. Fare in modo che tutti si rendano conto che l’ambiente non è la fissazione di una parte politica, ma qualcosa di ragionevole e necessario per le nostre vite. Prenda l’agricoltura. Negli Usa è ancora incredibilmente importante. Nell’America profonda, intere fasce di popolazione vivono di quello. Bene: nessuno più di quella gente rischia di subire gli effetti del cambiamento climatico. Quelli che dovrebbero sostenere con più forza il Green New Deal sono proprio loro: gli agricoltori repubblicani della Middle America.
D: Qual è il ruolo delle aziende petrolifere, in questo passaggio verso il verde?
R: Hanno un compito importante. Ma anche qui ci sono delle differenze. Quando parliamo di Big Oil diciamo qualcosa di molto diverso, a seconda che ci riferiamo agli Usa o all’Europa. Da voi, le aziende petrolifere sono aziende energetiche: c’è un’evoluzione dalle oil alle energy companies, dall’estrazione del fossile alla ricerca di fonti sostenibili, almeno in molte di esse. Ed è un’ottima cosa. Negli Stati Uniti questo passaggio è più lento e in certi casi non c’è proprio. Ci sono ancora Big Oil tradizionali, quelle per cui “se la roba che c’è qui sotto non è nera, non ci interessa”. Vogliono trovare il petrolio adesso, non rendere sostenibile il futuro. Evolversi sarebbe la cosa più naturale del mondo: si tratta di innovazione produttiva. Ma certe aziende semplicemente non lo fanno. È una questione di mentalità. Restano ancorati a quella che chiamiamo la Oklahoma and Texas culture.
D: E come si cambia la mentalità? Forse è il lavoro più duro…
R: È difficile, certo, e ci vorrà molto tempo. Onestamente, confido di più nelle aziende energetiche europee. Che siano a Roma, a Parigi o altrove, hanno una cultura diversa. Più progressiste, meno regressive. Distribuiscono energia, ma non solo quella.
D: Lei viaggia molto. Quali sono i Paesi o le situazioni che l’hanno colpita di più, in positivo?
R: Non sarò originalissimo, ma direi la Scandinavia. Non è solo una questione di politiche energetiche. Lì, un po’ alla volta, hanno proprio cambiato il modo complessivo di costruire, di muoversi, di agire. E non parlo di élite. È la vita quotidiana delle persone che ha abbracciato la cultura del cambiamento di cui stiamo parlando. Cammini per strada e lo vedi. Sono molto avanti.
D: E l’Italia?
R: Ha una grande opportunità. Avete un ottimo know-how nell’ingegneria: ci sono dei geni della tecnologia, qui. La sfida è sfruttare le loro conoscenze per creare modelli di business da portare su larga scala. Io spero che queste esperienze diventino il più possibile patrimonio globale, che l’Italia sia sempre più capace di coltivare e sprigionare questo tipo di genialità. L’altra cosa è che se guardi alle grandi aziende energetiche di qui, hanno già fatto questo salto di mentalità. Parlare di sviluppo sostenibile per loro non è una questione di facciata, di pubbliche relazioni: ci credono davvero. Si vede da come si muovono. E questo mi dà molta speranza.
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