Il settore energetico, come industria, nella grande foresta marshalliana, e come imprese, secondo gli insegnamenti insuperati di Edith Penrose, altro non fa storicamente che seguire, o spesso imporre, i progressivi spostamenti dei pesi e delle rilevanze dei confronti e di conflitti di potenza a livello mondiale. Oggi siamo dinanzi a un nuovo mondo caratterizzato da nuove aree di produzione e consumo – specialmente in Asia – in rapida espansione demografica e tecnologica. Esso si affianca a quelli storicamente consolidati delle poliarchie democratiche occidentali, dell’OCSE e del gruppo relativamente ristretto di produttori riuniti attorno all’OPEC (più la Russia), con un livello di frammentazione delle relazioni energetiche a livello transnazionale sino a ora inusitato. I modelli di governance saranno inevitabilmente sottoposti a profonde trasformazioni. Appare oggi, inoltre, un nuovo volto dello stato senza più “ragion di stato” e sempre più poroso e ibridato da soggetti che sfuggono alle regole della democrazia liberale; gli accordi internazionali sulla decarbonizzazione, per esempio, dovrebbero addirittura sostituirsi sia al mercato sia agli stati, in questo tempo di liberismo dispiegato e di deflazione secolare, con una singolare contraddizione che apre problemi economici e filosofici rilevanti. Siamo richiamati, come umanità, ad agire secondo modelli di biopolitica comportamentistica che assumono dimensioni interstatali complesse e che si costituiscono come forze di costruzione di landscape ideologici, mutuando la definizione di Appadurai, quali mai si erano visti prima sul globo terracqueo. Il condizionamento delle coscienze va di pari passo con il continuo spossessamento degli stati della “ragion di stato”, che è sempre stata, sino a oggi, l’essenza stessa del loro esserci nella storia. Si afferma via via, di converso, con difficoltà ma con impeto, per effetto soprattutto delle trasformazioni politiche statunitensi, un movimento opposto a quello accennato, e generato in primis dalla resistenza al processo di finanziarizzazione della politica e dell’economia (contro i suoi effetti denazionalizzanti e destatalizzanti).
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La diplomazia della decarbonizzazione
La trasformazione del paradigma energetico su scala globale svela l'inadeguatezza delle istituzioni internazionali.

Un nuovo ordine mondiale
Da un lato, quindi, aumentano gli accordi interstatali di cooperazione multilaterale su questioni proprie un tempo della “ragion di stato” e della libertà d’impresa (si pensi, appunto, agli impegni assunti da rappresentanti delle diversificate tecnocrazie inter-statali sulla transizione energetica, decarbonizzazione in primis) e, dall’altro lato, si rendono vieppiù manifesti diversificati rifiuti dei modelli di cooperazione multilaterale. Sempre più difficile, però, è rendere compulsivo qualsivoglia modello e processo implementativo di linee guida, di regole e di comportamenti inclusivi e stabili. La radice di ciò risiede nel mondo a frattali che si sta delineando in primo luogo nelle relazioni internazionali. Dopo il crollo dell’URSS si è creato un vuoto di regolazione dei rapporti di potenza non ancora colmato, perché nessun accordo generale ha sostituito il complesso architetturale costruitosi durante la Guerra Fredda. Ciò è accaduto per l’assenza di un trattato che potesse ricostruire il sistema delle relazioni internazionali mondiali. Non si è fatto per la follia (come la definì David Calleo in una sua opera seminale) dello spirito di potenza “unilateralista” degli USA e ora tutto il mondo ne paga le conseguenze.
Una guerra per l’egemonia, infatti, diviene sempre meno possibile ed è tale egemonia che è invece necessaria, essenziale, per stabilizzare il mondo, regolandone i meccanismi relazionali con una nuova “entente cordiale” su cui Raymond Aron ha per sempre definito, anni e anni or sono, i tratti essenziali. Tale volontà egemonica non era nelle corde del gruppo di comando poliarchico USA unilateralista. È riapparsa, però, con forza inaspettata, con l’elezione a presidente di Donald Trump, a testimonianza di quella trasformazione culturale prima richiamata. Si è giunti così a una dislocazione culturale, politica e diplomatica del potere nord- americano ancora in corso, ma già decisiva e propugnata da quel segmento delle élite del potere che oggi sono al comando (in modo infermo e instabile, però) negli USA. Tutto ciò mentre si affaccia la nuova potenza marittima e demografica e tecnologica dittatoriale cinese nell’agone mondiale, sconvolgendo le relazioni tra gli stati che dopo il crollo dell’URSS non avevano trovato nessun assestamento, come dimostrarono le guerre europeo-balcaniche e le guerre mesopotamiche, con il Mediterraneo di nuovo contendibile per il ritorno della Russia nei mari caldi. Ed ecco il frattale, la faglia decisiva anche per le nostre questioni energetiche. Un tale processo di riassestamento è quello che è sempre accaduto nella storia mondiale: la guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene, la Guerra dei Trent’anni, le Guerre Napoleoniche, la Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono frutto dell’avvento di potenze marittime revisioniste, dalla Persia e poi da Atene alla Germania e al Giappone e ora alla Cina. Ciò che oggi accade è certo l’emersione della Cina ma accompagnata dalla pericolosissima (per ogni “entente cordiale”) divisione tra USA da un lato e Francia e Germania dall’altro.
L'accesso a nuove risorse
Come si vede, il problema della decarbonizzazione è immerso in un grande confronto di potenza mondiale ed è un gomitolo di temi e di problemi che, srotolatisi, impongono di guardare il mondo e il potere che ne emana con altri occhi da quelli costruiti artificialmente dalla narrazione, dal landscape ideologico oggi dominante, ben definito da Gray. Ma la diplomazia, per inverarsi come forma mondiale creatrice di stabilità, abbisogna di stati con la “ragion di stato”. Ed è ciò, invece, che manca oggi e che si continua ad alimentare in una vertigine del rischio. L’eteroregolazione si sostituisce all’autoregolazione, proprio quando si fa gran parlare di “corporate social responsability” e si invocano comportamenti autopoietici delle imprese e delle associazioni di interesse. La follia, shakespearianamente, domina il mondo. È in questo scenario che vanno letti i processi tecnocratici interstatali che sono stati prospettati con accordi multilaterali, per quel che concerne il settore energetico mondiale, fatto di popolazioni organizzative di imprese e di relazioni tra codeste imprese e gli stati, sino a configurarsi, nel caso delle NOC (National Oil Companies), come imprese di stato e quindi come grumi di “ragion di stato” incarnati nella forma d’ impresa a proprietà statale, segmento della teoria e della prassi delle finanze pubbliche. I processi di transizione energetica e decarbonizzazione sono stati indotti – in primo luogo ma non esclusivamente – dalla lotta globale ai cambiamenti climatici. La trasformazione del paradigma energetico su scala globale comporterà una ridefinizione degli equilibri di potenza tra paesi produttori e paesi consumatori, l’emergere di nuove aree di interesse geopolitico e strategico e il progressivo disinteresse verso altre. Occorrerà accedere a nuove risorse naturali come il litio, il cobalto e le terre rare, con il confronto che si aprirà tra player globali ed élite locali per assicurarsene il controllo con una ridefinizione delle regole che sovraintendono alla sicurezza degli approvvigionamenti. Se il cuore dell’energia fossile mondiale rimarrà per secoli ancora tra l’Arabia e la Mesopotamia – lo shale oil e lo shale gas USA è solo una illusione passeggera – quello delle fonti necessarie per costruire i vettori delle cosiddette energie rinnovabili si dislocherà verso aree della Terra diverse da quelle di oggi e richiederà una predisposizione delle forze di contenimento degli avversari di potenza ben diverso dall’attuale. È pur vero che il progressivo scomparire dei combustibili fossili non avverrà mai, anzi il loro uso crescerà esponenzialmente proprio per approntare le infrastrutture necessarie alle cosiddette energie rinnovabili che fonti non sono, ma invece vettori e quindi avranno sempre più bisogno di fonti fossili, checché ne dica la narrazione dominate. Tuttavia le pressioni politiche e sociali dei movimenti collettivi, indotti dalle lobby degli interessi espressi dalla necessità di sussidi statali per finanziare i vettori rinnovabili non autosostenibili economicamente e le industrie e i servizi a tali vettori legati, avranno indubitabilmente conseguenze sulla stabilità, politica prima che economica, dei grandi paesi produttori (su ciò si veda la fondamentale opera di Massimo Nicolazzi, manager nel settore petrolifero e del gas).
Quanto conta ancora il carbone
Molti paesi produttori di fonti fossili, fortemente dipendenti dalle rendite petrolifere, si sentiranno minacciati nel loro sistema di alleanze statuali e interstatuali delle poliarchie autoritarie di cui in maggioranza fanno parte. Lo sviluppo inarrestabile, d’altra parte, delle tecnologie d’avanguardia creerà nuovi interessi e conflitti di potenza geopolitici legati al reperimento delle materie prime e alla competizione sulle e per le reti, con conseguenze che già intravediamo nel confronto in corso su questi temi tra USA e Cina. La situazione continentale africana sub-sahariana sarà decisiva: milioni e milioni di persone non hanno accesso a servizi energetici essenziali e dunque fattori come il primato tecnologico, unitamente all’espansione commerciale saranno elementi chiave della politica energetica delle medie e delle grandi potenze globali, purché si rovescino gli assunti delle politiche mondiali dominanti della razionalità limitata neo-liberista e del restringimento crescente dei mercati interni che ne deriva. In questo contesto, lo si ripete, gli attuali meccanismi di governance del settore energetico – basati in sostanza sul dualismo tra un compatto gruppo di paesi consumatori raccolti sotto il cappello della IEA, e i paesi produttori consorziati in ambito OPEC (e da alcune sue estensioni, vedasi OPEC+) e, seppur con impatto più limitato, GECF (Gas Exporting Countries Forum) – si stanno dimostrando inadeguati per affrontare i cambiamenti in atto per far fronte alle sfide della transizione energetica. Siamo dinanzi a una chiara testimonianza dell’inadeguatezza delle attuali architetture istituzionali internazionali in ambito energetico. Ciò che conta è sottolineare che si è affermata, nella costruzione simbolica imposta dalle agenzie della globalizzazione finanziaria, la costruzione narrativa fondata sull’assunto che sia la decarbonizzazione la via maestra attraverso cui si può giungere a una riduzione della CO2 che viene emessa nell’atmosfera terrestre, ignorando che è il complesso delle fonti energetiche tutte che, invece, consente la riproduzione dei sistemi economici e sociali mondiali. Il carbone è un elemento essenziale che garantisce anch’esso quell’equilibrio termodinamico grazie a cui l’energia consente la riproduzione sociale del sistema capitalistico e di quei sistemi a capitalismo monopolistico di stato asiatici (Cina, Corea del Nord e Vietnam) che convivono con differenti gradi di interconnessione con il sistema capitalistico mondiale operante nelle altre terre del pianeta, tra cui la demograficamente immensa India. Diminuire la percentuale di carbone e di CO2 prodotta sulla terra è uno sforzo non solo complesso, ma così ingente e ciclopico quale mai si è presentato prima. Vanno evitate le inquietanti semplificazioni che si susseguono incessantemente, quali per esempio quelle relative al fatto che l’inveramento con quote percentuali mondiali di presenza nella circolarità energetica non entropica condurrà automaticamente alla diminuzione della CO2, dimenticando i processi di generazione energetici necessari nella manifattura delle infrastrutture rinnovabili. E va altrettanto superata la convinzione che le industrie classiche, tanto delle fonti fossili quanto di quelle minerarie, non possano condurre a risparmi di CO2 addirittura più ingenti di quelli raggiungibili con l’inveramento delle energie non provenienti dalle fonti fossili. Si tratta quindi della necessità di una trasformazione profonda dell’intero modo di produrre su scala mondiale multifattoriale.
Oltre il capitalismo
È impensabile che questo processo possa essere affidato alla etero-regolazione interstatuale. Non può che essere effettuato, invece, attraverso l’autoregolazione d’impresa, pena di correre il rischio fatale dei disinvestimenti in quelle fonti sempre più indispensabili nel mutamento demografico mondiale che altro non sono che le antiche e insuperabile fonti fossili. Ciò che deve cambiare profondamente sono i processi produttivi che le usano e le producono per qualsivoglia forma di energia o di manifattura o di servizi: non altro. Ciò detto, la questione della regolazione va ancora e sempre preliminarmente posta alla discussione: per la prima volta nella storia mondiale, infatti, una trasformazione tanto ingente si è imposta attraverso una serie di accordi inter-statali. Questo implica una trasformazione della praxi e del concetto stesso di “ragion di stato”. Anne Marie Slaughter, a questo proposito, ha posto anni orsono l’attenzione su questo punto nella sue importanti opere sulla trasformazione delle relazioni internazionali e dei profili costituzionali che tali trasformazioni provocano, sottraendo sempre più al processo democratico ampi spazi di compulsività. Processi intervenuti con forza inaspettata, soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’emersione di un capitalismo neo-finanziarizzato sempre più centralizzato e insieme auto-regolato, e su cui ho già richiamato l’attenzione. E inoltre è indubitabile che un landscape immaginario e simbolico, costruito in anni di soft power dai gruppi di potere espressi dalle industrie e dai movimenti favorevoli alle fonti cosiddette rinnovabili, oggi determini larga parte delle scelte di politica economica del sistema capitalistico in corso di rapida trasformazione e imponga, come scelte prioritarie alle élite che il sistema governano, politiche economiche e sociali profondamente diverse da quelle del passato. La politica, come affermava Ulrick Beck, anche se scompare dal processo tecnocratico autoreferenziale delle oligarchie ben descritte da Anne Marie Slaughter, riappare dove meno la si aspetta: nelle decisioni di etero-regolazione inter-statuali degli accordi climatici, per esempio, che altro non sono che forme di regolazione in vista dell’inveramento di processi di politica economica. La radice distintiva di queste forme politiche è il fatto che tutte si muovono al confine tra stato e mercato, preformando tanto con la procedura tecnica quanto con l’ideologia, ora l’uno ora l’altro degli elementi della relazione stato-mercato, grazie al peso possente che esercitano le relazioni inter-statuali che si sono sedimentate in questo intreccio simbolico e sociale del nuovo potere trans-nazionale. Come definire questo nuovo landscape? Come classificarlo nel novero delle grandi trasformazioni del rapporto tra imprese, stato e società che sovradetermina sempre le configurazioni dei mercati e le volizioni delle popolazioni organizzative? Si è creato un sistema diffuso di credenze e di rispecchiamenti simbolici non solo diffusi ideologicamente, ma che dovrebbero trovare realizzazione in forme di stock di capitale fisso in una forma sino a oggi inusitata. E questo nel meccanismo di circolazione del capitale e di produzione di merci per mezzo di merci, che è tipico del sistema economico dominante in tutto il pianeta, salvo che in Cina, in Vietnam e in Corea del Nord, dove vigono regimi di capitalismo monopolistici di stato a dittatura burocratico-militare, con la presenza di estese ma non politicamente dominanti borghesie capitalistiche nazionali fortemente interrelate, dopo l’entrata della Cina nel WTO, con il globalizzato capitalismo finanziario oggi dominante. Questo sistema di credenze costituisce la nuova secolarizzazione internazionale e si diffonde con diversificatissime credenze tutte scaturite dall’assenza del sacro nelle relazioni personali: trasformazione antropologica e assiale di formidabile importanza, anche per quel che concerne i temi posti dalla problematica della decarbonizzazione.
L'autore: Giulio Sapelli
Giulio Sapelli, professore ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano ed editorialista de Il Messaggero, è una delle voci più originali e fuori dal coro tra gli economisti italiani.
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