La Association of Southeast Asia Nations è nata 52 anni fa con scopi prettamente politici. Ha in seguito allargato la platea dei partecipanti a dieci stati, estendendo altresì le sue competenze. L’integrazione è proseguita senza scosse, fino alla situazione odierna, nella quale la tradizionale neutralità rischia di non essere più sufficiente e redditizia. La firma apposta sull’atto costituente a Bangkok, l’8 agosto 1967, conferma una indiscutibile scelta di campo. I cinque stati convenuti – Indonesia, Malesia, Singapore, Filippine, Thailandia – sono tutti alleati degli Stati Uniti e del Regno Unito. La loro appartenenza è fortissima, il loro schieramento manicheo. Sono tutti impegnati a sconfiggere i nemici interni, le insurrezioni comuniste, il radicalismo delle aspirazioni anticoloniali.
Venti anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la guerra nel Pacifico orientale non è diventata fredda come in Europa. Al contrario, permane molto calda. Sono certamente vivi i ricordi delle carneficine della guerra civile in Corea, le tensioni per la sovranità di Taiwan conquistata dai nazionalisti di Jiang Je Shi, la guerra sull’Himalaya tra India, Cina e Pakistan, le infinite schermaglie di frontiera che interessano tutti i paesi.
Nei cinque paesi del sud-est asiatico che si stringono nell’ASEAN, la situazione non è certamente stabile. I nemici appartengono al campo socialista guidato dall’Unione Sovietica e poi dalla Cina, che fornisce un esempio vittorioso di guerriglia contadina. Ne sono flagellate le Filippine, la Malesia, la Thailandia. L’Indonesia ha appena deposto il Presidente dell’Indipendenza (Sukarno, leader del terzo mondo, alleato dei comunisti indonesiani), perpetrando continui eccidi degli antagonisti. Singapore ha da poco conquistato la sua indipendenza, avviando un percorso dove l’adesione alla libera economia di mercato appare la scelta più valida, mentre i potenti vicini mussulmani ne minacciano l’esistenza. Quando decidono di fondare un’associazione regionale, i leader dei cinque paesi hanno di fronte questi drammatici scenari. Devono inoltre guardarsi dal contagio vietnamita e dell’intera Indocina, allora in preda a una guerra che avrà esiti opposti a quelli auspicati dall’ASEAN. Per unirsi, i cinque paesi dimenticano le reciproche tensioni. Sono derubricate la “konfrontasi” (la breve guerra nel Borneo tra Malaysia e Indonesia), le scaramucce per i confini marittimi tra Manila e Kuala Lumpur, la ferita della separazione di Singapore. Vengono anche silenziati i contrasti interni che non lasciano spazio alle opposizioni e alla democrazia. Fin dalla nascita l’ASEAN mostra un’estrema pluralità. Nessun luogo al mondo offre un ventaglio di lingue, religioni, etnie, sistemi politici così aperto. Molto spesso, queste diversità non hanno arricchito ma colpito i diversi paesi, fino al limite della guerra civile. Su tutto, incombe una minaccia secolare: il perdurare del sottosviluppo. L’ASEAN è una regione povera, contadina, con un’economia poco monetizzata. Le malattie endemiche non sono sconfitte, l’analfabetismo è una piaga, l’accesso all’acqua potabile problematico. La caratteristica di Singapore – una città stato con una posizione strategica, un fermento commerciale, una nascente base industriale – rimane una luminosa eccezione. Quando siglano la nascita dell’ASEAN, i cinque paesi hanno di fronte due traguardi strategici: sconfiggere la povertà e contenere l’espansione di Mosca e Pechino. Sanno bene che i due obiettivi si sostengono: uno è strumentale all’altro, nella generosa alleanza con gli Stati Uniti. Con una sintesi forse eccessiva si può affermare che i paesi erano chiamati a non dichiararsi guerra e a sostenere le ragioni dello sviluppo. Date le circostanze, non si trattava di ambizioni facilmente raggiungibili. A distanza di anni, si può ragionevolmente affermare che essi siano stati raggiunti.
Il sigillo al successo è avvenuto con la scomparsa degli antagonisti. Con la caduta dell’Unione Sovietica, il crollo del Muro di Berlino, l’adesione della Cina alle logiche capitaliste, la divisione ideologica viene inaspettatamente messa di lato. Cessa il pericolo di sistemi socio-politici antagonisti. Il Vietnam, che nel 1975 aveva vinto la guerra e unificato il paese sotto l’ala di Mosca, nel 1986 compie una virata spettacolare nel campo della politica economica. La riforma Doi Moi (“rinnovamento”, ndr) riecheggia l’esperimento cinese e pone i valori dell’individualismo imprenditoriale accanto alla direzione centralizzata. Hanoi scopre che la produzione di valore è essenziale alla crescita del paese, che la logica militare che l’ha governato non è stata in grado di farlo decollare. Con drammatica urgenza scopre che è meglio delegare la funzione economica a mani private, aprendo contemporaneamente il paese ai rapporti con l’estero. Essi non sono più un contagio pericoloso, ma uno strumento per la crescita. Dopo dieci anni di stenti e ricostruzione, il Vietnam preferisce lo sviluppo all’identità e – seppur guidato dallo stesso partito, come in Cina – riconosce negli stati confinanti dei vicini preziosi e non più pericolosi. Quando nel 1995 l’Associazione che lo aveva combattuto lo accoglie nei suoi ranghi, per il Vietnam è l’inizio di un percorso più che la fine di un’era. Può finalmente costruire la pace dopo aver vissuto e vinto la guerra. L’adesione del Laos e di Myanmar nel 1997 e della Cambogia due anni dopo (il sultanato del Brunei aveva aderito al tempo della sua indipendenza, nel 1984) completano l’ASEAN. La sua fisionomia attuale è certamente più potente e organica rispetto al suo battesimo.
Dopo un trentennio di consolidamento e allargamento, l’Associazione appariva pronta per un suo rilancio e, soprattutto, si riteneva fosse matura per conseguire nuovi obiettivi, al di là della pace e della difesa delle proprie frontiere. Gli stati erano ancora giovani, formati da movimenti anticoloniali, ma ormai strutturati e governati da una dirigenza non più inesperta. Soprattutto, non erano politicamente minacciati. I consumati bastioni della Guerra Fredda apparivano ora un ostacolo allo sviluppo, dopo aver rappresentato dei capisaldi della sicurezza.
Colpiti dalla propria inadeguatezza, estranei alle nuove prospettive, tramontano progressivamente i leader autoritari: Marcos nelle Filippine, Suharto in Indonesia, i generali in Thailandia. Le stellette tornano in caserma, la diaspora cinese è meno vessata, l’imprenditoria privata è più tutelata. I dieci governi hanno privilegiato i rapporti economici, meno conflittuali e certamente più fruttuosi. È così iniziato un lungo periodo di crescita costante e diffusa, senza che i principi cardine dell’ASEAN siano messi in discussione. Il primo rimane la non interferenza negli affari interni di ogni paese, interpretato nella sua maniera più rigida. Non esistono limiti alla sovranità nazionale. Ogni paese ha la sua moneta, la politica economica, i controlli alle frontiere, il proprio esercito. Svolge la sua azione senza vincoli e soprattutto senza deleghe.
La fotografia è nitidamente diversa dall’Unione Europea. I concetti di “casa comune”, destino condiviso, universalità dei diritti non vengono accolti. Prevale invece un preciso realismo, la scelta cogente di non sollevare argomenti irrisolvibili, anche a costo di apparire disinteressati a questioni di portata globale. Questa scelta prudente, misurata, di basso profilo ha dato buoni risultati. Uscita presto dalla crisi finanziaria asiatica del 1997, l’ASEAN e tutti i suoi paesi hanno inanellato – pur nella loro diversità – una serie di successi invidiabili. Hanno associato due aspetti cruciali: la crescita e la stabilità. Piacciono entrambi alle aziende e alle cancellerie. La conversione di questi concetti nella quotidianità è apparsa nell’aumento del PIL, nei conti pubblici tenuti sotto controllo, nell’emersione di una nutrita classe media, nell’assenza di frizioni fuori controllo.
L’ASEAN sostiene orgogliosamente il suo ruolo di paziente mediazione, preferita al clamore delle decisioni unilaterali. Rivendica la gestione dell’isolamento birmano, dove la non interferenza ha condotto alle elezioni e al ritorno di un governo civile, al contrario di quanto altri metodi hanno causato in Siria e in Libia. Decenni di sviluppo hanno dunque rafforzato l’Associazione. In un clima di crescente ammirazione, le analisi spesso iniziavano con la preposizione ipotetica. Se l’ASEAN fosse un’unica entità sarebbe - con i suoi 650 milioni di abitanti – il terzo paese più popoloso al mondo, il quarto esportatore, la quarta economia nel 2030, il primo ricettore di investimenti esteri. Se ciò è vero, è indimostrabile il contrario: sarebbe stato possibile un successo così rilevante se si fosse proceduto con un’integrazione più spinta? In realtà le differenze tra i vari paesi sono così marcate che è inimmaginabile qualsiasi tentativo di unificazione monetaria, militare, di immigrazione. Il risultato probabilmente più importante è stato raggiunto nel 2015 con la creazione di un’area di libero scambio tra i dieci paesi, con assenza di misure tariffarie anche per la ridistribuzione di merci importate da paesi terzi. Per le altre questioni, nonostante una comune attenzione ai temi sociali, ogni governo ha mantenuto le proprie prerogative.
Tuttavia, i nuovi assetti che si stanno delineando nell’Asia orientale consentono il mantenimento di questa posizione sostanzialmente defilata? Il basso profilo è compatibile con l’emersione di conflitti a ridosso delle proprie coste? La risposta è largamente negativa.
Potrà quindi l’ASEAN mantenere la propria unità in presenza di interessi divergenti al suo interno? È questo il nodo cruciale che i suoi esecutivi non potranno disattendere. Finora infatti, una divisione di responsabilità ha progressivamente preso forza, come si appartenesse all’ordine naturale delle cose: la Cina garantisce il traino economico, gli Stati Uniti forniscono la sicurezza.
Questa situazione ha protetto le spalle all’ASEAN che ha dovuto soltanto districarsi con sapienza diplomatica. Ora i vecchi assetti sono in discussione. La Pax americana scaturita dalla resa del Giappone più di 70 anni fa trova nello sconfinamento marittimo della Cina una minaccia sostanziale. Pechino rivendica uno spazio immenso nei mari che lambiscono le coste di molti paesi ASEAN. Costruisce su isolotti deserti fari, attracchi, piste di atterraggio. Mostra mappe secolari che dimostrano come quegli scogli siano indiscutibilmente cinesi, collegati dalla nine-dash-line che sposterebbe le acque interne della Cina alcune miglia di chilometri verso sud.
Le tensioni sono evidenti maggiormente nelle dispute territoriali con il Vietnam e le Filippine, ma preoccupano tutti i paesi del sud-est asiatico. Confliggono ovviamente con il presidio della settima flotta statunitense che solca quei mari e garantisce la libertà di navigazione. Garantisce i rifornimenti alla Corea e al Giappone, perché dagli stretti di Malacca, Makassar e Lombok transita la metà del petrolio mondiale.
È impensabile che Washington rinunci alla sua egemonia, che l’interminabile dopoguerra nel Pacifico abbia esiti così clamorosi. Eppure i governi dell’ASEAN, pur preoccupati, non hanno la forza e l’unità per opporsi alle mire di Pechino. La Cina rappresenta per l’intera Associazione il maggiore partner commerciale e l’investitore più assiduo, utile in particolare per la costruzione di infrastrutture. Soprattutto per i paesi più piccoli o più vicini – come il Laos, la Cambogia o Myanmar – è impraticabile resistere alla forza di Pechino nelle trattative bilaterali.
Nella prudenza dell’Indonesia, il paese più grande e importante, spicca il paradosso della storia: Singapore – dove la popolazione è per tre quarti cinese – ha la forza di distanziarsi da Pechino per mantenere la sua amicizia con gli Stati Uniti, mentre il Vietnam, ignorando la guerra di 50 anni fa, trova in Washington un alleato in funzione anti cinese. Le dispute territoriali sono indice di tensioni più grandi tra Cina e Stati Uniti. Si dipanano negli scambi commerciali con la guerra dei dazi, nell’espansionismo cinese della Belt and Road Initiative, nel suo versante marittimo che interessa l’ASEAN, nella conquista della supremazia tecnologica in settori strategici. È verosimile che le dispute aumentino e che sconfinino in territori più insidiosi. La loro origine è infatti radicata e complessa, certamente non gestibile con estemporaneità e propaganda.
Dopo la fine della Guerra Fredda, l’ASEAN è chiamato a un’altra svolta storica, questa volta ancora più impegnativa. Deve in sostanza cessare di essere un immenso cuscinetto tra gli interessi statunitensi e cinesi. La posta in gioco eccede i normali equilibri e le rispettive convenienze. Dovrà dunque assumere iniziative coraggiose, perché ormai le sue dimensioni globali sono conclamate e la sua popolazione sempre più esigente. L’evoluzione sociale non potrà più essere sacrificata agli equilibri politici. Se la sua debolezza è stata in effetti una forza mascherata, se aver trascurato un ruolo internazionale ha favorito lo sviluppo interno, ora sono opportune posizioni vincolanti. Per farlo, l’architettura istituzionale dell’ASEAN potrebbe rivelarsi insufficiente. Sono ancora tanti gli squilibri sociali, le differenze di reddito, i volumi del PIL. Stanno riemergendo, mai sopite, le pulsioni identitarie, l’orgoglio etnico, le rivendicazioni autonomiste, l’intolleranza religiosa. L’immensa sovrastruttura asiatica rivendica un proprio ruolo e probabilmente i tradizionali capisaldi dell’ASEAN – primo fra tutti la non interferenza – si mostreranno inadeguati. Dopo aver dato il timbro dello sviluppo a dieci paesi diversi, una loro modifica appare in linea con la globalizzazione. La potenza di stati forti e unitari, come la Cina e gli Stati Uniti, impone soluzioni diverse perché la frammentazione rigida – che pur tanti risultati ha prodotto – rivelerebbe la sua fragilità in ogni tavolo negoziale.
Romeo Orlandi è Vice Presidente dell’Associazione Italia-Asean, economista e sinologo, insegna Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Ha diretto il think tank Osservatorio Asia. Collabora a quotidiani e riviste specializzate.
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