Lo chiamano il Paese d’oro, forse perché i Mon, una delle prime etnie a popolare la parte continentale del sud est asiatico migrati dalla Cina occidentale, lo definirono così, Suvannabhumi, o, più probabilmente, per le sue pagode dorate e le foglie d’oro delicatamente applicate dai fedeli alle statue di Buddha. È il Myanmar, ex Birmania, dove Eni è presente in quattro blocchi esplorativi, due a terra e due a mare, dal 2014. Siamo andati a vedere sfide e peculiarità affrontate durante le operazioni di sismica a terra, nel blocco RSF-5. Un viaggio interessante, da cui imparare… L’esperta di comunicazione Annamaria Testa, in un articolo su “Internazionale” del gennaio 2016, ricordava le parole dello storico birmano Thant Myint-U, fondatore del Yangon Heritage Trust, centro di eccellenza indipendente che si occupa di conservare gli edifici storici della capitale: “prima di Rangoon (dal 1989, Yangon) c’era la Shwedagon”. Shwedagon è un’immensa pagoda (o stupa, dal sanscrito) dall’imponente e brillante cupola dorata, che domina il profilo di Yangon. Un monumento, collocato al centro di un grande gruppo di templi, alto 98 m, fra i più sacri ai birmani. Un simbolo della mente illuminata che rappresenta il corpo di Buddha. Altri sostengono che prima di quello stupa ci fosse, invece, la pagoda dorata Sule, al centro della città, alta 46 m. Indipendentemente dalla cronologia fatta anche di leggenda, ciò che colpisce del Myanmar è l’intenso colore d’oro, lo stesso che ricopre le statue di Buddha, in segno di devozione (pacchetti di quadrati di foglioline d’oro si acquistano nelle pagode per pochi dollari, sì che ognuno possa applicarle a statue e pareti di templi.