Un progetto di imprenditoria femminile nato per garantire l’accesso all’energia pulita in alcune zone dell’Africa dove l’elettricità è ancora generata da vecchi sistemi che utilizzano fonti inquinanti.
di
Davide Perillo
16 settembre 2020
10 min di lettura
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Davide Perillo
16 settembre 2020
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È nato tutto così, da una discussione tra moglie e marito in un villaggio sperduto nel sud dell’Uganda. Una casa semplice: la camera da letto, un tinello con angolo cucina, come diremmo noi, un’altra stanzetta come punto di appoggio per l’attività di lui, che di mestiere fa il pastore. Più un locale fuori, a metà strada tra la casa e la stalla, dove lei tiene le galline.
Quattro ambienti in tutto. Ma il sistema di pannelli solari che stavano per installare non avrebbe retto più di tre lampade. Da qui il battibecco: ok per camera e soggiorno, ma la terza? Lui la voleva in ufficio, lei nel pollaio. E non per un vezzo: "le galline non mangiano al buio: se hanno le luci accese producono di più". Alla fine, vinse la moglie: la lampada finì a illuminare i polli. Le galline iniziarono davvero a fare più uova, da vendere. Nel giro di qualche mese, da quel surplus di micro-reddito vennero fuori i soldi per comprare una mucca, una capra e qualche sacco di mangime. Un circolo virtuoso, insomma. Piccolo, ma sufficiente a dare una spinta alla famiglia e agli affari di Rebecca, la moglie del pastore, diventata imprenditrice. Una donna che, senza immaginarlo, è stata all’origine di un progetto che sta cambiando un pezzo di Africa.
Si chiama Solar Sister il consorzio nato per diffondere l’energia solare in una zona dove almeno 600 milioni di persone hanno il cellulare, ma non l’accesso a una rete elettrica e per accendere i fornelli di casa o caricare i generatori, usano sistemi antichi e dannosi per sé e per l’ambiente: kerosene anzitutto e carbone. Spesa che assorbe dal 10 al 30% delle entrate familiari. E tempo, fatica, ore di lavoro.
Da qui l’idea di Katherine Lucey, americana di Atlanta, Georgia, trapiantata nell’Africa nera per seguire la sua passione. Ex banchiera d’affari con una carriera da self-made woman. Entrata da segretaria e arrivata a gestire hedge fund, trading e valutazione rischi nel settore energia. Dopo vent’anni di attività, molla la finanza per tuffarsi nel sociale. Diventa direttore esecutivo di una piccola ONG, la Solar Light for Africa, che installa pannelli solari in scuole e ospedali, in zone isolate dell’Uganda. Progetti semplici, ma con un impatto decisivo nella vita della gente. Lei se ne rende conto quando segue l’attivazione della pompa di un pozzo, in una clinica che fa da unico presidio sanitario in un territorio abitato da tre milioni di persone: i pannelli, i cavi, poche giornate di lavoro e da quel momento le infermiere non dovevano più spendere due ore al giorno, a testa, per tirare su, letteralmente, l’acqua che serviva ai pazienti.
Ma l’incontro decisivo è proprio quello con Rebecca. È Katherine a seguire l’installazione di quelle tre lampade. A vedere cosa ne nasce. E a immaginare un progetto diverso, che sposi la diffusione del solare all’imprenditoria femminile. Poggia su due pilastri. Il primo: l’importanza di arrivare in maniera capillare alla miriade di villaggi dell’ultimo miglio, quelli troppo lontani per collegarsi alla rete elettrica, quando c’è. Oppure che, se si allacciano alla rete, scontano guai comuni da queste parti: interruzioni, cali di tensione, guasti. "Se non hai accesso stabile all’energia, non potrai mai superare il livello di sussistenza e raggiungere un minimo di prosperità", ha spiegato Lucey in un’intervista a Yale Envinronment. Il secondo pilastro: il cambiamento vero passa dalle donne. Sono loro che seguono la casa, curano i figli, cucinano. Sono loro che sanno bene cosa vuol dire respirare il fumo del carbone, o uscire di sera a cercare la legna per preparare la cena. Se vuoi rompere il legame che intreccia povertà e inquinamento, devi arrivare a loro. “Il nostro programma le raggiunge dove sono: in casa…”, dice Lucey “… e dà accesso all’energia attraverso un network di donne imprenditrici come loro”.
Le Solar Sister sono nate così. I soldi per partire sono arrivati in fretta, vista l’esperienza di Lucey. A dare una mano è arrivata Neha Mishara, economista indiana sui generis, visto che scrive poesie e coltiva l’arte popolare. E poi, via via, una rete sempre più larga che coinvolge ONG e aziende del settore in vari Stati.
Il modello è semplice: "in pratica è come quello dell’Avon. Avete presente le rappresentanti domestiche di cosmetici? Attraverso le donne, vendiamo alle donne e alle loro comunità. Le reclutiamo, le formiamo, le supportiamo e forniamo loro i prodotti. E il capitale iniziale". Dopo un training di 10-12 mesi che spiega per bene come funzionano i pannelli solari, le batterie e cosa vuol dire mettere in piedi una piccola attività, alle Sister vengono date due cose: una t-shirt arancione, con il logo bene in vista e una borsa di prodotti in conto capitale. Luci e lampade, anzitutto, di ogni misura. Caricatori per cellulari e batterie solari. Ma anche radio, fari, purificatori d’acqua. Se vendono, una quota dei guadagni va subito a loro e diventa un po’ margine, un po’ capitale da reinvestire. Il circolo virtuoso parte così. In genere ci mettono poco per capire che prodotti funzionano nella loro comunità.
I prezzi partono da dieci dollari fino a qualche centinaio. L’acquisto medio è sui cinquanta. "Può sembrare tanto, per contesti dove il reddito medio è di due dollari al giorno", osserva Lucey: "ma il kerosene costa da 2 a 4 dollari a settimana e altri 3 in media se ne vanno per ricaricare un cellulare: l’investimento rientra in meno di due mesi". Da lì in poi è solo risparmio. E pareti che non si anneriscono più dello stesso fumo denso che finisce nei polmoni.
Funziona, insomma. Lo dicono le mappe delle Sister, che stanno allargando la loro presenza dall’Uganda in Rwanda, Sud Sudan, Tanzania, Nigeria… e i numeri di Turning the lights, il report annuale del gruppo: in sei anni di operazioni strutturate, contano 4.565 nuovi imprenditori (per l’86% donne), 347mila prodotti venduti e un milione e 700mila persone raggiunte in qualche modo da quei piccoli oggetti che cambiano la vita. Letteralmente.
Prendete Hilaria Pascal, una delle prime. Vive in un vilaggio vicino a Tarangire, in Tanzania. Intreccia cesti e lavora piccoli oggetti artigianali, giocando con i colori come solo da queste parti sanno fare. Si è aggregata alle Sister sette anni fa, con l’aiuto del marito "che ci ha messo un po’ di capitali". È partita comprando una dozzina di lampade e un po’ di caricatori per telefoni. Li ha venduti tutti e non si è più fermata. Oggi ha duemila clienti e ha messo in piedi un gruppo che ha chiamato Mshikamano, che in swahili vuol dire solidarietà, per trasmettere conoscenze e strumenti. "La gente ci sostiene perché abbiamo portato un altro stile di vita nelle loro case", dice Basilia, una di loro.
Se non hai accesso stabile all’energia, non potrai mai superare il livello di sussistenza e raggiungere un minimo di prosperità
Storia simile a quella di Patricia Shayo, contadina, quattro figli di cui gemelli da sfamare e un’inclinazione per gli affari amplificata dalla necessità. Vendeva sorgo andando porta a porta, ha affittato un piccolo orto. "Dove vedo un’opportunità, mi butto". Quando ha sentito parlare di Solar Sister e si è resa conto che a Michungwani, il suo villaggio a cento chilometri dalla costa della Tanzania, tutti usavano ancora legna e kerosene per accendere luci e fornelli, si è lanciata. Qualche mese di training, l’aiuto del marito –impiegato in un’azienda energetica, un piccolo vantaggio– e adesso anche lei gestisce il suo business. Contenta per i profitti, ma soprattutto perché “mi ha reso una madre più forte e coraggiosa”.
È uno degli effetti collaterali del progetto: l’emancipazione. "Questo sistema permette alle donne di prendersi cura dei loro figli senza dover dipendere dagli altri", dice Patricia. Ma l’altro, altrettanto importante, è l’aspetto educativo. "Tutto qui c’entra con l’educazione", racconta Onyinye Ndimele, un’altra Sister di Awka, in Nigeria: "non riguarda solo il business, ma anche altri aspetti della vita. Ho imparato molto: ho capito quanto conta insistere, avere fiducia nelle tue idee. Ora penso di poter realizzare qualsiasi progetto". Certezza che le viene da un’altra storia di successo, nel suo piccolo: insegnante, due bimbi piccoli, come secondo lavoro vendeva cosmetici. È partita con un investimento di 40mila naira, meno di 100 euro, tra lo scetticismo di amiche e consorte. Ora ha abbastanza soldi per pensare a un futuro diverso "vorrei comprarmi un pezzo di terra e costruire la mia casa" e ha preso per la prima volta l’aereo: invitata ad Abuja, la capitale, per un meeting tra piccole imprenditrici.
Aggiungeteci che la luce vuol dire anche sicurezza, qui più che da altre parti, e il quadro del cambiamento diventa completo. Eucharia, contadina, sette figli e un marito che per lavoro guida un mototaxi, vive in un villaggio dello stato di Eunugu, in Nigeria. Ha iniziato tre anni fa a girare la zona in moto, con la t-shirt arancionedelle Sisters e una borsa piena di lampade e batterie. La centrale elettrica dell’Oji ha smesso di funzionare come si deve sedici anni fa. Da allora, blackout di giorno e buio di notte. Non proprio l’ideale, in una zona dove molte bande di criminali per fare soldi usano un sistema antico: i rapimenti. Arrivano, entrano in casa a forza, portano via una donna o un bambino e chiedono un riscatto. Non sempre la vittima torna. È successo anche a Eucharia di sentire urla e colpi sulla porta, in una notte in cui era sola in casa con una nipote. Ma lei aveva lampade intorno ai muri, due per ogni lato. Le ha accese, ha dato l’allarme e i banditi sono scappati. Ora Eucharia non le spegne più, quando fa sera e ai clienti può raccontare di come l’energia pulita le ha salvato la vita.
E Rebecca, la prima Solar Sister? Con i polli ha guadagnato abbastanza per realizzare il suo sogno: aprire una piccola scuola. Insegna a leggere e scrivere a un gruppo di bambini. E ai più grandi spiega come ha fatto a mettere su la sua microimpresa. "Siamo tornati a trovarla, tempo fa", ha raccontato Lucey: "c’erano queste splendide ragazze che avevano appena preso un diploma grazie a lei. L’ho guardata, e le ho detto: ‘wow, con quella lampadina hai illuminato il mondo!’. Ecco, è questo il potere dell’energia".
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