La raccolta di legna risale alla preistoria, quando gli uomini iniziarono ad utilizzare il fuoco per le proprie necessità. Con la crescita degli insediamenti agricoli, le civiltà si sono espanse, causando una radicale alterazione del suolo e spesso depauperandone le risorse anche fino al collasso. Alcune comunità sono scomparse, molte altre hanno scelto di spostarsi su nuove terre.
A distinguere la situazione attuale da quella passata sono la portata e l’impatto di queste azioni. Oggi non possiamo più permetterci infatti il lusso di continuare a colonizzare nuove terre. Nell’articolo “Storia della deforestazione” (The History of Deforestation), Michael Williams scrive: “I cambiamenti a cui abbiamo assistito dalla metà del XX secolo mostrano la trasformazione di un antico processo che, rispetto alle epoche precedenti, ha colpito gli ambienti maggiormente a rischio e in modo irreversibile. Si potrebbe dire che il 90% del processo di deforestazione si sia verificato prima del 1950”.
Sebbene in numerose aree del mondo industrializzato la deforestazione sia in una fase di rallentamento o perfino di regressione, continuiamo a devastare gli ecosistemi più vulnerabili e importanti del pianeta. Lo scorso giugno, il Global Forest Watch ha pubblicato una ricerca dell’Università del Maryland in cui si indicava il 2017 come “il secondo anno peggiore in assoluto per la deforestazione nelle zone tropicali”.
È comprensibile come notizie di questo tipo ci portino alla conclusione che gli sforzi di riforestazione globale non stiano riuscendo a contrastare efficacemente il problema. I risultati riportati da studi condotti dall’università del Maryland e da altre fonti, sono alquanto preoccupanti, ma i fattori alla base della deforestazione sono vari e complessi, soprattutto in un’economia globalizzata in cui la domanda di mercato proveniente da una singola parte del mondo si ripercuote in ogni angolo del globo.
I particolari variano a seconda delle circostanze ma, un programma di riforestazione, per essere efficace e sostenibile, deve coinvolgere tutti gli stakeholder in una serie di strategie olistiche, diversificate e integrate. In altre parole, dobbiamo saper guardare oltre…
Come suggerisce il nome, il progetto di gestione degli ecosistemi Ridge to Reef riguarda gli habitat più sensibili e, soprattutto, la loro interconnessione: un esempio eccellente di come iniziative ambientali integrate rendano giustizia al fatto che una foresta sia molto più di un semplice insieme di alberi. L’approccio del progetto Ridge to Reef (R2R) è particolarmente adatto alle condizioni che generalmente caratterizzano i piccoli paesi insulari e le regioni tropicali del pianeta.
La Global Environment Facility, un’organizzazione internazionale multisettoriale e grande sostenitrice del progetto R2R, afferma sul proprio sito web:
In tutto il mondo, sono pochi gli stati che dipendono da risorse naturali sane e concentrate sullo sviluppo socioeconomico come le isole del Pacifico. Di conseguenza, questi Paesi necessitano di sostegno per mantenere e ottimizzare beni e servizi legati all’ecosistema. L’approccio integrato nei confronti di terra, acqua, foresta, biodiversità e gestione delle risorse costiere può contribuire alla riduzione della povertà, alla sostenibilità dei mezzi di sussistenza e alla resilienza climatica.
In altre parole, sebbene nessun ecosistema terrestre sia completamente isolato dagli altri, gli habitat e le comunità delle isole del Pacifico sono strettamente correlati e dipendono intrinsecamente l’uno dall’altro.
Allo stesso modo in cui l’approccio di R2R prevede l’integrazione dello stato di salute degli ecosistemi, numerosi altri programmi mettono a disposizione opportunità di collaborazione tra il settore pubblico e privato, che tutti gli stakeholder della regione sono invitati a partecipare.
Ad esempio, VICO Indonesia, società sussidiaria di Eni Energy, nel 2014 ha implementato un progetto Ridge 2 Reef nella provincia del Kalimantan Orientale nell’isola del Borneo, territorio in cui l’azienda è operativa. Il programma comprendeva una serie pianificata di interventi, dalla piantagione di alberi di Ulin negli altopiani tropicali e di mangrovie nelle aree costiere, fino alla costruzione di quaranta substrati di calcestruzzo a sostegno della rigenerazione dei coralli.
Il ripristino di questi habitat interdipendenti ha favorito gli sforzi di preservazione della popolazione di oranghi locale. La partecipazione delle comunità indigene contribuisce a mantenere il buono stato di salute dell’ecosistema multifunzionale e ad accrescere il livello di formazione, apprendimento e il potenziale per ottenere migliori risultati economici.
Simonetta Sandri riassume per Eniday l’impatto dell’operazione sulla regione:
“Proteggere un’area è fondamentale per assicurare l’integrità del suo patrimonio naturale e umano; preservarne la biodiversità contribuisce a conservare le specie vegetali e animali e impedisce il progressivo impoverimento culturale, economico e sociale delle popolazioni indigene e delle comunità locali coinvolte”.
La riforestazione sul campo può rivelarsi estremamente lenta e richiedere un forte impegno. La combinazione tra nuovi strumenti“open-source” e l’impiego di droni consente di portare la riforestazione di precisione su scala industriale.
Startup come BioCarbon Engineering e DroneSeed sono solo alcune delle aziende che stanno cambiando i paradigmi per accelerare la riforestazione. Irina Fedorenko, co-fondatrice di BioCarbon Engineering, afferma che gli attuali programmi di piantagione degli alberi “non sono abbastanza rapidi”. In un articolo pubblicato sul National Geographic in cui si illustra la tecnica utilizzata da BioCarbon, la Fedorenko spiega: “[…] La nostra è una tecnologia automatizzata, che di conseguenza può realisticamente espandersi piuttosto rapidamente”.
Nel 2013 Lot Amoros, eclettico artista “interdisciplinare”, costruttore di droni e ingegnere informatico, ha iniziato a collaborare con un ambientalista e un architetto fondando Dronecoria. Tra i vincitori della “What Design Can Do Climate Action Challenge”, Dronecoria è una piattaforma open-source scalabile che utilizza strumenti e tecnologie per portare la riforestazione su larga scala alla portata di piccole organizzazioni e comunità.
Dronecoria prevede due fasi d’implementazione: nella prima si crea una mappa precisa grazie all’apprendimento automatico dell’analisi dei terreni; nella seconda, si disperdono apposite “bombe di semi” ottimizzate in base allo specifico luogo di intervento.
Per Amoros e i suoi colleghi, Dronecoria non è soltanto droni e tecnologia: è un mezzo per aumentare il potere delle persone, la capacità d’intervento umana, rispetto a quella delle macchine. “Non ci interessa creare una macchina in grado di piantare migliaia di alberi”, spiega Amoros. “Il nostro obiettivo è consentire a migliaia di persone di piantare migliaia di alberi”.
Nonostante alcune battute d’arresto e le sfide incontrate, la riforestazione degli ecosistemi globali maggiormente vulnerabili, è una realtà.
Dalle organizzazioni intergovernative alle società energetiche private fino alle comunità locali e agli innovatori di tutto il mondo, le soluzioni sono a portata di mano.
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