Questo articolo è tratto da WE-World Energy n. 45 – The power of tree. Leggi il magazine
È ormai assodato che, a partire dal periodo dell’urbanizzazione indotta nel XIX secolo dalla nascita della grande industria, le città possano essere considerate le responsabili della produzione di ben il 75 percento della CO2 presente nell’atmosfera terrestre. CO2 la cui incontrollabile crescita è alle origini del riscaldamento globale e dei suoi effetti sui ghiacciai e sui mari del nostro pianeta. Le città, dove vive la maggioranza degli individui della nostra specie, sono anche le principali vittime degli effetti del riscaldamento del pianeta. Basti pensare agli effetti drammatici delle inondazioni sui waterfront di molte metropoli costiere e ai danni che una meteorologia trasfigurata dal riscaldamento degli oceani genera su aree urbane diventate enormi placche impermeabili, dove l’acqua si accumula e scorre senza poter essere assorbita dal suolo. O all’accelerazione degli effetti da “isola del calore” che l’aumento della temperatura genera su metropoli quasi totalmente minerali, per non considerare l’impressionante numero di decessi che il riscaldamento unito all’inquinamento dell’aria provoca tra gli abitanti delle aree urbanizzate. D’altro canto, sono proprio le città ad avere oggi le risorse e le potenzialità per diventare protagoniste di una radicale inversione di tendenza, mirata a contrastare i drammatici effetti dell’emergenza climatica.
Le dimensioni e l’intensità del fenomeno dell’emergenza climatica sono tali che il filosofo ecologista inglese Timothy Morton lo classifica come un iper-oggetto, ossia un fenomeno collocato nello spazio e nel tempo in modo da trascendere il tema stesso della localizzazione. Ci troviamo infatti di fronte a una molteplicità di effetti spesso poco visibili o percepibili solo nel lungo periodo. Oppure a effetti geograficamente lontani, come lo scioglimento del permafrost in Siberia e l’innalzamento della superficie del mare nelle isole Fiji, ma che in realtà sono strettamente collegati tra loro, anche se una prima percezione potrebbe trarre in inganno.
Non a caso un quotidiano autorevole come “The Guardian” ha recentemente proposto una sostanziale modifica del vocabolario legato al cambiamento climatico, nominato e definito come crisi o emergenza climatica. Sono proprio le incredibili accelerazioni che hanno caratterizzato l’evolversi di questo fenomeno negli ultimi anni e le loro ripercussioni sempre più intense e devastanti sull’ambiente urbano a suggerire il cambio di nomenclatura e a darci la misura della gravità di una situazione che in termini generali ci vede già sconfitti.
Città e emergenza climatica sono reciprocamente intrecciate anche rispetto alla crescita dei flussi migratori che, a causa dell’inabitabilità crescente di aree del pianeta, si riversano sulle aree urbane, generando un vero e proprio effetto a catena. Solo nel 2012, a causa di circa 300 disastri ambientali tra uragani, alluvioni e terremoti, che hanno colpito soprattutto Cina, Stati Uniti, Filippine, Indonesia e Afghanistan, ci sono stati più di 32 milioni di profughi per motivi climatici, che si vanno ad aggiungere a tutti coloro che lasciano le proprie terre di origine a causa della progressiva desertificazione e delle continue carestie, delle guerre e delle persecuzioni religiose, di genere o legate all’orientamento sessuale che sempre più caratterizzano alcuni paesi africani e mediorientali. Secondo le stime più recenti, nel 2050 tra i 200 e i 250 milioni di esseri umani saranno costretti ad abbandonare i propri territori di vita e a spostarsi verso le città, determinando così un ulteriore progressivo aumento dei fattori che costituiscono la causa prima della stessa emergenza climatica.