Questo articolo è tratto da WE-World Energy n. 46 – Water stories
Secondo l’OCSE, se le tendenze attuali non si dovessero modificare, 4 miliardi di esseri umani nel 2030 vivranno problemi di “water stress”: l’Africa settentrionale, il Medio Oriente, l’Asia centrale e il versante americano orientato al Pacifico sono le maggiori candidate. L’indice di water stress rappresenta una combinazione tra la dotazione di risorse naturali (precipitazioni pro-capite) e intensità di uso (prelievi pro-capite). Di per sé, non significa che moriremo di sete, ma piuttosto ci lascia presagire una crescente conflittualità tra gli usi. Gli economisti usano il termine “trade-off”: o faccio una cosa o ne faccio un’altra, le alternative sono mutualmente esclusive, e qualcosa va sacrificato.
Nel dibattito mediatico, tuttavia, i termini della questione vengono spesso fraintesi. Nella narrazione dominante, la scarsità di acqua viene tematizzata come un problema di scarsità fisica. C’è sempre meno acqua, perché la stiamo dilapidando esaurendone le “riserve”, e perché l’umanità cresce, avendo ormai superato il settimo miliardo. Ergo, ci saranno conflitti per accaparrarsi l’“oro blu”, il petrolio del 2000. Le multinazionali, che l’hanno capito in anticipo, cercano di accaparrarsene i diritti d’uso, per poi rivendercela a caro prezzo e lucrare profitto. Contro questo tentativo, i cittadini si sono rivoltati, affermando con forza il “diritto all’acqua”, oggi riconosciuto da un fronte che va dall’ONU a Papa Francesco, e sempre più esplicitato sinanche nelle Costituzioni; e ribadendo con altrettanta forza l’appartenenza dell’acqua ai cittadini (tema del “bene comune”), con il conseguente corollario di una gestione necessariamente pubblica ed estranea alla logica del profitto.
Una simile ricostruzione si è a tal punto radicata nel nostro retropensiero da diventare una sorta di riflesso condizionato, di verità indiscutibile, di mantra. Eppure, basterebbe analizzarla con qualche dato di fronte per rendersi conto che essa è fondamentalmente sbagliata. Non che non contenga qualche elemento di verità: ma è la concatenazione causale, il modo di accostare i concetti e i dati che contiene qualcosa di sfocato e, in ultima analisi, fuorviante.