La pandemia di Covid-19 ha portato alla ribalta il tema della salute pubblica. Una delle sfide più urgenti che riguardano da tempo tutti i paesi del mondo è l’inquinamento atmosferico. Numerosi studi scientifici indicano che i due problemi sono collegati, anche se manca ancora una prova inoppugnabile a sostegno della tesi per cui le particelle di sostanze inquinanti possono fare da vettore al virus, agevolandone la diffusione tramite un effetto moltiplicatore. Secondo tali studi, l’inquinamento non è solo responsabile di un maggior numero di contagi, ma anche di un maggior numero di decessi. Un’esposizione prolungata agli agenti inquinanti provoca patologie respiratorie croniche che indeboliscono i soggetti affetti da Covid-19, aggravando il rischio di decesso. Due studi sulla situazione negli Stati Uniti e nei Paesi Bassi hanno rivelato che un aumento del PM2,5 di 1 microgrammo per metro cubo (una quantità esigua) può innalzare il tasso di mortalità del Covid-19 anche dell’8-16 percento.
Il Covid-19, pertanto, dovrebbe rafforzare ulteriormente la volontà di combattere l’inquinamento atmosferico, soprattutto nei paesi asiatici non-OCSE e nell’Africa subsahariana, dove si registra l’83 percento delle morti premature collegate all’inquinamento a livello mondiale. Solamente India e Cina insieme rappresentano il 57 e il 49 percento del totale delle morti premature causate, rispettivamente, dall’inquinamento dell’aria dentro e fuori casa. Limitare l’uso di piccole caldaie a carbone e assicurare l’accesso a moderne fonti di energia per eliminare l’uso della biomassa negli ambienti domestici risulta un passaggio essenziale per abbassare il tasso di mortalità da inquinamento.