Tra gli effetti della crisi causata dalla pandemia, anche la ridotta disponibilità delle risorse economiche. Nell’attuale contesto di incertezza, si potrebbe rilanciare il ruolo del gas naturale nella transizione energetica. Ma, per ora, il potenziale contributo di questa abbondante risorsa alla riduzione delle emissioni inquinanti non convince tutti e varia da regione a regione.
di
Luca Franza (IAI)
24 settembre 2020
15 min di lettura
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Luca Franza (IAI)
24 settembre 2020
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La pandemia di Covid-19 ha portato alla ribalta il tema della salute pubblica. Una delle sfide più urgenti che riguardano da tempo tutti i paesi del mondo è l’inquinamento atmosferico. Numerosi studi scientifici indicano che i due problemi sono collegati, anche se manca ancora una prova inoppugnabile a sostegno della tesi per cui le particelle di sostanze inquinanti possono fare da vettore al virus, agevolandone la diffusione tramite un effetto moltiplicatore. Secondo tali studi, l’inquinamento non è solo responsabile di un maggior numero di contagi, ma anche di un maggior numero di decessi. Un’esposizione prolungata agli agenti inquinanti provoca patologie respiratorie croniche che indeboliscono i soggetti affetti da Covid-19, aggravando il rischio di decesso. Due studi sulla situazione negli Stati Uniti e nei Paesi Bassi hanno rivelato che un aumento del PM2,5 di 1 microgrammo per metro cubo (una quantità esigua) può innalzare il tasso di mortalità del Covid-19 anche dell’8-16 percento.
Il Covid-19, pertanto, dovrebbe rafforzare ulteriormente la volontà di combattere l’inquinamento atmosferico, soprattutto nei paesi asiatici non-OCSE e nell’Africa subsahariana, dove si registra l’83 percento delle morti premature collegate all’inquinamento a livello mondiale. Solamente India e Cina insieme rappresentano il 57 e il 49 percento del totale delle morti premature causate, rispettivamente, dall’inquinamento dell’aria dentro e fuori casa. Limitare l’uso di piccole caldaie a carbone e assicurare l’accesso a moderne fonti di energia per eliminare l’uso della biomassa negli ambienti domestici risulta un passaggio essenziale per abbassare il tasso di mortalità da inquinamento.
Il Covid-19 non rappresenta solo una crisi sanitaria: ha anche provocato la più grave recessione economica dalla Seconda guerra mondiale. Per quest’anno si prevede che il Pil globale cali del 5,2 percento. Ciò riduce le risorse disponibili per nuovi investimenti, compresi quelli necessari a creare un modello di sviluppo più sostenibile. Anche se i governi stanno mettendo in atto ambiziosi pacchetti di stimolo, gli investitori privati saranno restii a investire in un contesto di crescente incertezza. Una ripresa economica “a V” appare improbabile. Al contrario, la recessione rischia di avere una coda lunga. A ridursi sarà anche la spesa dei consumatori in prodotti innovativi (compresi quelli meno inquinanti). Inoltre, non tutti i Paesi dispongono della potenza di fuoco finanziaria necessaria a compensare la riduzione degli investimenti privati che si registrerà con la crisi economica.
L’attenzione sembra essere principalmente rivolta alle risorse finanziarie da investire, ma non bisogna tralasciare l’importanza del risparmio nella fase attuale. Le ripercussioni socio-economiche della crisi, infatti, non si sono ancora manifestate del tutto. Man mano che le risorse si fanno più scarse, sarà sempre più importante utilizzarle con saggezza. Ciò significa anche utilizzare e sfruttare al massimo le infrastrutture energetiche esistenti, tra cui centrali elettriche, siti di stoccaggio, linee di trasmissione e linee di distribuzione. Anzi, l’accessibilità economica dovrebbe essere uno dei principi guida delle politiche volte a gestire la crisi innescata dal Covid-19.
In questo scenario, il gas naturale ha un ruolo importante da giocare: si tratta di una delle alternative più economiche a disposizione per ridurre sia l’inquinamento atmosferico sia le emissioni di CO2. I prezzi del gas naturale sono ai minimi storici ed è probabile che rimarranno bassi per la maggior parte del prossimo decennio. Infatti, quando la domanda tornerà a crescere ai ritmi pre-crisi (intorno al 2025 o prima), anche l’immissione di nuova capacità produttiva di GNL avrà ripreso a pieno ritmo.
Il gas naturale non è sempre la soluzione ottimale per rispondere alla sfida della transizione energetica. Le valutazioni sulla sua capacità di offrire vantaggi in termini di impatto ambientale variano nello spazio e nel tempo: usare il gas naturale non è necessariamente utile ovunque (se si vuole raggiungere una decarbonizzazione economicamente vantaggiosa). Inoltre, usare il gas naturale nella sua configurazione attuale non sarà necessariamente vantaggioso in una prospettiva di lungo termine. Occorrerà dunque focalizzarsi sulla decarbonizzazione del gas, attraverso la cattura e lo stoccaggio della CO2, senza distogliere l’attenzione dall’impegno a investire su rinnovabili ed efficienza energetica.
Al contempo, non dovremmo impedire che il gas naturale, nel breve termine, possa dare un contributo alla riduzione delle emissioni. Si tratta di un’opportunità che non potevamo permetterci di ignorare prima del Covid-19, e da cui oggi più di ieri non possiamo prescindere. Proprio come non ci possiamo permettere, sul lungo periodo, di impedire a biogas, biometano e idrogeno di giocare un ruolo cruciale nella transizione energetica: infatti, gli scenari che prevedono una completa elettrificazione sono molto più dispendiosi di quelli in cui entrano in gioco le molecole non inquinanti.
A partire dal 2010, la transizione dal carbone al gas ha evitato 500 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Per ottenere un risultato simile nello stesso periodo, sarebbe stato necessario immettere sulle strade altri 200 milioni di veicoli elettrici a zero emissioni di carbonio. Va ricordato che le emissioni del gas sono molto inferiori a quelle del carbonio e del petrolio.
La possibilità di utilizzare il gas a favore dell’ambiente varia a seconda dell’area geografica. Negli Stati Uniti e nell’Unione europea, la maggiore potenzialità del gas riguarda la sostituzione del carbone per la produzione di elettricità. Ad aver bisogno di fonti di energia elettrica programmabili sono soprattutto le economie avanzate, dove i requisiti di flessibilità stanno aumentando con l’adozione di fonti di energia rinnovabili intermittenti. Benché i costi di installazione delle fonti di energia rinnovabili siano calati, i costi di adattamento dei sistemi diventeranno sempre più ragguardevoli. Qui il gas ha un’importante funzione sistemica da giocare, anche perché le prospettive per eventuali fonti alternative di energia elettrica programmabili e non inquinanti non sono rosee. Molti paesi dell’Unione europea hanno adottato programmi per l’abbandono del nucleare oppure, come Spagna e Svezia, si sono impegnati a chiudere l’attività delle centrali nucleari prima che queste abbiano raggiunto la fine del proprio periodo operativo. Gli investimenti nel nucleare sono fiacchi. Sono ben tredici le centrali nucleari ad aver cessato l’attività in un solo anno nelle economie avanzate. I progetti relativi alla costruzione di nuove centrali continuano a essere rinviati dal momento che i prezzi dell’energia elettrica sono bassi e le aziende di servizio pubblico devono affrontare una significativa incertezza nel lungo termine. I margini per ampliare sensibilmente la capacità di produzione idroelettrica sono limitati.
Nei paesi emergenti dell’Asia, invece, il contributo principale del gas consiste nella sostituzione del carbone nel riscaldamento e nell’industria. In questa regione, il gas parte da una base molto inferiore rispetto ai paesi OCSE (in termini di percentuale del consumo totale di energia primaria). Il margine di crescita, pertanto, è molto maggiore e l’uso del gas può ampliarsi contribuendo così alla decarbonizzazione per un periodo più lungo. Nello Scenario di sviluppo sostenibile (SDS), per esempio, il consumo di gas di Cina e India crescerà di 600 miliardi di metri cubi entro il 2040, mentre nello stesso periodo il consumo europeo e statunitense calerà di circa 300 miliardi di metri cubi.
Prima della pandemia di Covid-19, la IEA calcolava che, abbandonando su scala globale il carbone a favore delle esistenti centrali elettriche alimentate a gas, si potessero risparmiare rapidamente 1,2 gigatonnellate di emissioni di CO2. Uno scenario legato alla previsione di poter contare su prezzi concorrenziali e disposizioni favorevoli, e al fatto che il grosso del potenziale della transizione si trova negli Stati Uniti e nell’Unione europea – dove a garantire ampi margini di capacità inutilizzata sono nuove ed efficienti centrali termoelettriche a ciclo combinato (CCGT).
Dopo il Covid, in effetti, sembra che si possa decisamente contare su prezzi concorrenziali e alcune disposizioni politico-regolatorie favorevoli. Data l’enfasi sulla ripresa sostenibile, i programmi per l’abbandono del carbone nell’Unione europea non sono stati accantonati a causa della crisi; dopo una contrazione iniziale, il prezzo dell’ETS (il sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’UE) è risalito e la Riforma per la stabilità dei mercati rassicura che i prezzi della CO2 non caleranno nei prossimi mesi; nella prima metà del 2020, i prezzi dell’Henry Hub hanno oscillato tra 1,5 e 2 dollari/MMBtu; e i prezzi del TTF sono calati da 4 dollari/MMBtu a 1 dollaro/MMBtu. Nel mercato statunitense, il gas ha la meglio sul carbone. Anzi, negli Stati Uniti la transizione dal carbone al gas è proseguita nel bel mezzo della pandemia, perfino in roccaforti del carbone come il Midwest. Nella prima metà dell’anno, il consumo statunitense di gas adeguato alle condizioni meteorologiche è effettivamente aumentato dello 0,4 percento. Di sicuro il 2020 non sarà un’annata favorevole per l’industria del gas, ma la disponibilità di gas che ne deriverà potrebbe agevolarne la diffusione in futuro.
La capacità inutilizzata nelle centrali elettriche è invece minore nei paesi emergenti dell’Asia, dove un problema ulteriore è rappresentato dal fatto che i prezzi del gas importato hanno finora impedito a questa risorsa di diventare un’alternativa allettante al carbone nel settore elettrico. Nei paesi emergenti dell’Asia, il gas ha addirittura iniziato a dover competere con nuovi impianti eolici e fotovoltaici sulla terraferma. Prima dell’epidemia di Covid-19, la IEA aveva calcolato che i prezzi delle importazioni cinesi avrebbero dovuto scendere sotto i 4 dollari/MMBtu perché il gas avesse qualche possibilità di soppiantare il carbone in termini di competitività. A partire da luglio 2020, i prezzi medi delle importazioni di gas in Asia restano relativamente elevati a causa dell’indicizzazione del petrolio nei contratti. Tuttavia, è probabile che nella seconda metà dell’anno scendano sotto la soglia dei 4 dollari/MMBtu in conseguenza del calo del prezzo del petrolio avvenuto in primavera (e dei 6 mesi di ritardo con cui vengono applicati i criteri per l’indicizzazione delle tariffe petrolifere nei contratti di importazione del gas). Se la Cina fissasse un prezzo per la CO2 come aveva annunciato prima della crisi, la posizione competitiva del gas potrebbe migliorare ulteriormente.
Naturalmente, il futuro del gas in paesi come Cina e India dipende in gran parte dalle decisioni politiche (puntare o no sul gas naturale), e che a loro volta dipendono (anche) da previsioni di disponibilità nel lungo termine e da cali temporanei del prezzo del gas. Se però il prezzo del petrolio seguita ad aggirarsi intorno ai 40 dollari – e dato che è improbabile che l’attuale eccesso di offerta di gas lasci il posto a condizioni di rigidità prima che arrivi sul mercato la nuova ondata di GNL mobilitata dalle decisioni finali di investimento (FID) nel biennio 2018-19– ci sono buone prospettive perché il gas abbia un prezzo concorrenziale per la maggior parte degli anni 2020. I paesi emergenti dell’Asia potrebbero inoltre sfruttare l’attuale fase di mercato come un’occasione per negoziare condizioni contrattuali favorevoli per le importazioni di gas a lungo termine. Se i decisori politici si convinceranno che il prezzo del gas si manterrà concorrenziale per un certo periodo di tempo, essi saranno maggiormente inclini a sceglierlo come parte della soluzione per limitare l’inquinamento urbano e le emissioni di CO2.
La crisi del Covid-19 ha rafforzato le tesi a favore del gas. Innanzitutto, per l’importanza del ruolo del gas nella riduzione dell’inquinamento atmosferico. In secondo luogo, per la necessità di utilizzare con saggezza risorse economiche più scarse prestando rinnovata attenzione al tema dell’accessibilità economica, e di cogliere opportunità a portata di mano, come quelle offerte dalle infrastrutture esistenti. Nella pratica, resta spesso difficile perorare la causa del gas, specialmente nell’Unione europea, dove le argomentazioni a sfavore si basano sul fatto che continuare a investire nel gas perpetua il “blocco del carbonio” (“carbon lock-in”) e che il gas non è una soluzione a lungo termine per la decarbonizzazione e distoglie le risorse dalle fonti di energia rinnovabili, dall’efficienza energetica e dall’integrazione dei sistemi.
Naturalmente, sostenere che il gas possa contribuire a contenere l’inquinamento e le emissioni di CO2 in certe regioni geografiche e in certi orizzonti temporali, non crea né dovrebbe creare il pretesto per rinviare gli investimenti sulle soluzioni a zero emissioni di carbonio: anzi, l’industria del gas dovrebbe fare ogni sforzo per ritagliarsi un ruolo all’interno degli scenari di decarbonizzazione scommettendo su gas decarbonizzato, come biogas, biometano e soprattutto idrogeno.
Luca Franza è il Responsabile del Programma Energia, Clima e Risorse dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). È inoltre Research Fellow presso il Clingendael International Energy Programme (CIEP) a L’Aja (Paesi Bassi) e docente nel Master Energia della Paris School of International Affairs (PSIA) – SciencesPo.
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