Una nuova sfida per Eni nel suo percorso di decarbonizzazione: un gigantesco sito di stoccaggio per la CO₂.
di
Stefano Bevacqua
10 luglio 2020
4 min di lettura
di
Stefano Bevacqua
10 luglio 2020
4 min di lettura
L’anidride carbonica è un elemento essenziale, uno dei protagonisti del fragile gioco di equilibrio che garantisce il meraviglioso ciclo vitale sul nostro pianeta. L’uomo è parte di tutto questo, ma il progresso tecnologico di circa duecento anni ha portato con sé un aumento nelle emissioni di anidride carbonica nell’aria. Un potenziale pericolo che noi tutti abbiamo il dovere di fermare.
Una delle numerose soluzioni risponde al nome di CCS. Sta per Carbon Capture and Storage, tradotto: catturare dai processi di combustione la CO2 che inevitabilmente viene generata e metterla da parte invece di lasciare che si diffonda in atmosfera. Ed è proprio la CCS una delle tecnologie su cui Eni punta per raggiungere i propri obiettivi di decarbonizzazione.
L’obiettivo centrale, è quello ribadito anche negli ultimi giorni dall’Amministratore Delegato di Eni Claudio Descalzi: azzerare entro il 2040 le emissioni nette di gas ad effetto serra, per arrivare, al 2050, a una riduzione dell’80% delle emissioni sull’intero ciclo di vita dei prodotti energetici, comprese quelle prodotte da coloro che li utilizzano – in altre parole, a vendere esclusivamente prodotti decarbonizzati, nel 2050.
Per questo obiettivo, un’iniziativa diventa chiave: realizzare il più grande sito di stoccaggio di anidride carbonica del mondo. Dove? Sotto l’Adriatico, al largo di Ravenna, utilizzando giacimenti di gas naturale ormai esausti. Con una capacità di stoccaggio compresa tra 300 e 500 milioni di tonnellate, questi depositi sotterranei potrebbero contribuire in misura molto rilevante al contenimento delle emissioni di gas climalteranti del nostro Paese. E Ravenna, grazie al suo tessuto industriale e alle infrastrutture ancora operative, offre un’opportunità unica per la CCS, poiché il riutilizzo di impianti esistenti e la vicinanza a impianti emissivi permetteranno di mantenere costi altamente competitivi. La CCS, inoltre, assumerebbe un valore particolarmente significativo nell’ottica del possibile sviluppo di una filiera blue.
Ma perché catturare la CO2 per metterla sottoterra? Non sarebbe più semplice evitare di produrla? La risposta è duplice. In primo luogo, nessuna ricetta, nemmeno quella del più stellato degli chef, può accontentarsi di un solo ingrediente.
La sfida per il contrasto dei cambiamenti climatici è gigantesca, una sfida mai affrontata in oltre 200 mila anni di storia. Per affrontarla servono tutti gli strumenti disponibili: le fonti rinnovabili, certamente, ma anche la riforestazione e il recupero delle risorse altrimenti sprecate (economia circolare), l’efficientamento energetico dei consumi finali e i sistemi di mobilità sostenibile, fino alla CCS stessa. Eni sta proseguendo il proprio percorso di decarbonizzazione con l’obiettivo di arrivare ad azzerare le emissioni di CO2 connesse con le proprie attività entro il 2030. Entro il 2050 arriverà ridurre dell’80% delle emissioni totali calcolate sull’intero ciclo di vita dei prodotti energetici che immette sul mercato in accordo con gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi. Sempre nel 2050 la capacità elettrica rinnovabile installata di Eni supererà i 55 GW mentre con progetti di forestazione e CCS riusciranno a contribuire al contrasto al cambiamento climatico eliminando oltre 40 milioni di tonnellate di CO2 all’anno.
In secondo luogo, lo sviluppo di questa impresa, per la quale si prevede di richiedere il sostegno del Fondo europeo per l’innovazione, avrà importanti ricadute sul piano tecnologico e delle competenze. Un modo, insomma, per sviluppare una nuova filiera industriale, tutta made in Italy, in grado di competere in condizioni di vantaggio sui mercati mondiali.
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