Come emergeva dalla classifica che analizzava 12 squadre in base a parametri che andavano dall’uso di energia rinnovabile alla raccolta dei rifiuti, fino alla sicurezza nei parcheggi per le bici. In testa, per la cronaca, c’erano Brighton e Tottenham, davanti all’Arsenal. Liverpool e Manchester City a metà classifica, lo United non rispose alle domande. Da lì, l’idea di un programma in sei punti da introdurre nella Premier: luce negli stadi solo dai led, niente plastica, opzioni vegane per i menù di bar e ristoranti, colonnine per le auto elettriche nei parcheggi e, se possibile, almeno un paio di trasferte all’anno in pullman anziché in aereo. Il sesto punto, però, era il più importante: la promozione. Cartelli, manifesti, iniziative… Ai club veniva chiesto di fare di tutto per aumentare la sensibilità tra i tifosi. E il motivo è semplice: «Le squadre di calcio sono nel cuore della gente», spiegava Shaun Spiers, direttore esecutivo di Green Alliance, una think-tankinglese sull’ecologia: «Possono fare di più, ma soprattutto possono far capire di più l’importanza di questi temi».
È vero. La Premier League, punta dell’iceberg del ricchissimo universo-calcio, è seguita ovunque: arriva in 725 milioni di case in tutto il mondo, e i sei club più famosi, da soli, collezionano 70 milioni di followers solo su Twitter. Qualsiasi cosa dicano o facciano i calciatori, i tifosi lo vedono. Lo giudicano. E, spesso, lo seguono. Vale per gli sponsor e la pubblicità, da sempre. Per campagne sociali, in tempi più recenti. Perché non dovrebbe valere anche per promuovere la sensibilità all’ambiente? E se 3 miliardi e mezzo di persone hanno visto almeno una partita dell’ultimo Mondiale, un football ecosostenibile non sarebbe un veicolo di educazione, e al tempo stesso di autopromozione, perfetto? I club, un po’ alla volta, se ne stanno accorgendo. E si muovono.
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