Un materiale importante per l’uomo, ma anche una grande fonte di un inquinamento. La soluzione è riciclarlo o... divorarlo.
di
Stefano Bevacqua
24 giugno 2020
6 min di lettura
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Stefano Bevacqua
24 giugno 2020
6 min di lettura
La ricerca scientifica ha portato alla creazione di invenzioni e sviluppo di tecnologie, che nel corso degli ultimi cent’anni, hanno avuto un ruolo cruciale nel migliorare la capacità di affrontare le più svariate malattie, contribuendo all’allungamento e miglioramento della vita umana.
Tra queste, emerge la plastica, parola che evoca di per sé una dicotomia nell’utilizzo e consumo della stessa. Analizziamone l’aspetto positivo nella recente contingenza, che ci ha visto alle prese con l’insorgenza pandemica del Covid-19 e immaginiamo come sarebbe potuta andare senza il contributo di questo materiale divenuto in breve tempo tanto diffuso quanto indispensabile. Pensiamo a un reparto di terapia intensiva senza sacche per il plasma, tubicini per le flebo, visiere protettive. Oppure al negozio sotto casa, senza barriera protettiva in plexiglas sul bancone. Esempi particolari, ma che permettono di mettere a fuoco l'importanza di ciò che negli ultimi decenni è stato oggetto di demonizzazione, nel tema dell’inquinamento da plastiche, ma che all’occorrenza ha assunto un ruolo determinante nel supportare fattivamente il sistema sanitario e salvaguardare la nostra esistenza.
Utilissima, irrinunciabile in gran parte dei suoi usi. Si pensi alle bottiglie che prima erano solo di vetro, allo smartphone con il quale stiamo leggendo questo articolo, o al computer con il quale è stato scritto. Senza plastica peserebbero e costerebbero dieci volte di più. Anche maledetta però, perché è diffusa una pratica cronica e universale: la dispersione di plastica nell'ambiente dopo l’utilizzo, i cui effetti più deleteri sono dovuti a quelli che sono i suoi vantaggi: stabile, inerte e scarsamente deteriorabile. È così che formidabili pregi si sono trasformati in difetti. Ma rinunciare alla plastica, lo abbiamo visto con il triste esempio della pandemia, sarebbe deleterio. Diciamo pure impossibile. Lo sforzo, ormai da anni, è quello di trovare soluzioni, dal processo di produzione, all’utilizzo e allo smaltimento finale, capaci di ridurre il più possibile la dispersione di plastiche nell'ambiente. Eni, attraverso la sua Versalis, è da molti anni in prima linea su questo fronte, promuovendo diverse strategie industriali per risolvere i problemi che la plastica comporta, senza rinunciare ai vantaggi che offre.
Si lavora al design dei prodotti per garantire una migliore riciclabilità dei manufatti, allo sviluppo di tecnologie innovative per migliorare l'efficienza dei processi e aderendo alla Circular Plastics Alliance. Così si chiama il piano lanciato dall'Unione Europea con l'obiettivo di incrementare il mercato delle materie plastiche riciclate. L’impegno è di arrivare entro il 2025 a utilizzarne fino a 10 milioni di tonnellate all'anno per produrre nuovi prodotti.
Partiamo dalle cifre per dare un'idea delle dimensioni del problema: dal 1950 al 2015 sono state prodotte nel mondo 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Per tre quarti sono diventate rifiuto e, di queste, oltre tre quarti sono finite in discarica o disperse nell'ambiente. Eppure sono una risorsa energetica, anzitutto, attraverso la termovalorizzazione, ma soprattutto per la possibilità di essere riutilizzate. Per farlo occorre separare i rifiuti, attività essenziale per avviare il ricircolo virtuoso, ma è soltanto il primo passo. Quello successivo, il riciclaggio, non è esattamente la cosa più facile del mondo. I problemi sono diversi: i materiali plastici andrebbero separati per poterli destinare a usi specifici al termine del loro ciclo di vita; lo stesso vale per quelli con diversi colori; le caratteristiche fisiche dei prodotti che si ottengono dalle operazioni di recupero non sempre sono tali da consentire la realizzazione di manufatti di ogni sorta.
Una soluzione consiste nel demolire la plastica ricorrendo a enzimi prodotti da alcuni batteri. È una strada promettente soprattutto per il riciclaggio del PET, acronimo di polietilene tereftalato, utilizzato per produrre bottiglie o per la fabbricazione di tessuti, sotto la denominazione di poliestere. IlPET rappresenta circa un quinto di tutta la plastica prodotta nel mondo e per quasi la metà è costituito da bottiglie di plastica. La qualità che permette di utilizzare il PET per confezionare alimenti liquidi e solidi è, di nuovo, il suo difetto: non si degrada naturalmente. Peggio: se disperso senza controllo, si riduce in minuscole particelle destinate a rimanere nell'ambiente.
Le tecniche di riciclaggio più comuni prevedono la riduzione del PET in pastiglie riutilizzabili in altri cicli produttivi, ma possono essere lavorati solo residui trasparenti e la catena polimerica che ne risulta è molto più corta di quella originale, rendendone l'utilizzo meno interessante. La soluzione migliore sarebbe quella di scindere il PET nei suoi costituenti di base: acido tereftalico e glicole etilenico.
Nel 2016 una equipe di ricerca giapponese ha individuato un batterio chiamato Ideonella sakaiensis, che produce un enzima capace di demolire la catena del PET riducendola ai suoi elementi di base. Però i tempi di reazione sono lunghissimi, tanto da scoraggiare qualsiasi impiego commerciale. Un gruppo di ricerca francese però, che fa capo al Toulouse Biotechnology Institute e a un'impresa privata, è riuscito a scovare un'altra famiglia di batteri capaci di secernere un enzima, una cutinasi, efficientissimo nello smantellare il PET. Diecimila volte più velocemente di quanto facesse il microrganismo scoperto dai giapponesi. Sembrerebbe un passo in avanti decisivo, ma solo il tempo ce lo dirà. Nell'attesa sarebbe già una vera rivoluzione, se le persone la smettessero di considerare l'ambiente come una discarica di cui ci si possa dimenticare, chiusi tra le proprie confortevoli mura domestiche.
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