La tecnologia si fa paladina nella battaglia contro lo spreco alimentare, scopriamo le app più interessanti e efficaci disponibili in tutto il mondo.
di
Davide Perillo
17 febbraio 2020
9 min di lettura
di
Davide Perillo
17 febbraio 2020
9 min di lettura
Giura che l’idea è spuntata dopo una cena. «Era un ristorante a buffet, a fine serata. I fondatori rimasero sorpresi da quanto cibo vedevano buttare nella spazzatura. Eppure era ancora perfetto da mangiare». E dato che i fondatori – Chris Wilson, Jamie Crummie e Klaus Pedersen – smanettavano tra smartphone e programmazione, da lì a inventarsi un propotipo di app il passo fu veloce. Ma probabilmente non sarebbe mai diventata un caso di successo se qualche mese dopo, durante un viaggio, uno di quei nerd non avesse mostrato l’invenzione alla sua casuale compagna di sedile: Mette Lykke, 38 anni, startupper danese, già fondatrice di Endomondo, una app per il fitness da milioni di utenti. Era il 2015. La Lykke è entrata nella start-up, ha trovato i finanziamenti, è diventata CEO. E adesso è lei a raccontare al mondo, con uno storytelling perfetto per un’azienda del genere, il successo di Too Good To Go (“troppo buono per essere buttato”), l’ultima – ed efficace – soluzione hi-tech per combattere lo spreco alimentare, sbarcata da poco in Italia dopo aver conquistato mezza Europa partendo da Copenaghen.
La trovata è semplice: l’app geolocalizza supermercati, bar, panetterie, pizzerie e pure qualche ristorante. Insomma, i classici produttori di quella mole di bendidìo che a fine giornata, rimasto sugli scaffali, finisce buttato. Qui, invece, lo rimettono in vendita online, nelle ore prima della chiusura e scontato del 66-75% in quelle che chiamano “magic-box”, sacchetti pieni di cibo venduti a 3-7 euro al massimo. Chi si iscrive scorre la rassegna di negozi, sceglie, prenota, paga. Poi passa nell’orario fissato e ritira la “box”. Risultato? Ci guadagnano tutti. Il negozio evita una perdita secca; il cliente risparmia, si toglie lo sfizio di una cena o di una colazione a sorpresa (il contenuto, ovviamente, varia fino all’ultimo a seconda dall’andamento delle vendite: quello che resta fisso è il controvalore) e ha la soddisfazione di partecipare alla battaglia contro lo spreco («be a waste warrior!», recita uno degli slogan che compaiono tra un passo e l’altro della procedura). «Ma la verità è che funziona perché è una soluzione win-win-win», spiega la Lykke. A guadagnarci, appunto, c’è un terzo protagonista: l’ambiente.
Basta scorrere i numeri per rendersene conto. Ogni anno, soltanto in Italia, si buttano via qualcosa come 9 milioni di tonnellate di cibo, per un controvalore di circa 15 miliardi di euro: lo 0,88% del PIL. Oppure, se preferite, 250 euro a testa, calcolo più corretto perché a sprecare di più non sono ristoranti e supermercati, come si pensa, ma noi stessi: il 60% degli alimenti buttati finiscono nella spazzatura di casa. E spesso è ancora roba buona da mangiare. Se poi si allarga la prospettiva, i brividi aumentano: con quel miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anno (stima FAO, 2018) ci si potrebbe nutrire un numero pari a quattro volte i poveri del mondo a rischio fame (821 milioni). Aggiungeteci i danni per l’ambiente (per produrre il cibo che poi va sprecato in Italia si immettono nell’aria 24 milioni di tonnellate di CO2, dato Coldiretti), e capirete perché si tratta di un’emergenza vera. E perché, per affrontarla, è fondamentale l’aiuto di tutti, uno per uno. Anche usando lo smartphone.
Se Too Good To Go sembra aver preso l’abbrivio più marcato (19.5 milioni di utenti e 30.2 milioni di magic box vendute), di idee simili ne stanno spuntando parecchie, in giro. Alcune hanno lo stesso impianto di fondo. A Toronto, Canada, Flashfood ha rilanciato da poco un’iniziativa identica, nata e finita negli USA, guadagnandosi la collaborazione di catene di supermarket come Meijer. Un po’ come No Food Wasted (da non confondere con il nome del movimento creato in India, che assomiglia al nostro Banco Alimentare e raccoglie alimenti per i poveri): nata nei Paesi Bassi, ha 20 mila utenti e funziona più o meno come Too Good To Go, con le scatole di prodotti iperscontati da prenotare online e ritirare a ridosso della scadenza. La differenza è che qui gli utenti possono anche fare una lista della spesa indicando dei prodotti preferiti: quando diventano disponibili, l’app li avvisa. Effetto dichiarato: dal 18 al 25% in meno di spreco per ogni negozio che ha aderito. «Una media di 2.500 euro al mese», osserva August De Vocht, lo sviluppatore.
A Singapore, invece, ha spopolato per un po’ la trovata di Tan Jun Yuan, trentenne venditore ambulante scocciato di calcolare a fine giornata quanto bak kut teh (una zuppa di pane e costolette di maiale) gli restava in pentola. Si è messo lì con qualche amico e ha tirato fuori 11th Hour, l’undicesima ora: un’app per mettere in vetrina piatti e menù a prezzo scontatissimo offerti dai ristoranti della megalopoli poco prima della chiusura. Aperta nel 2016, ha registrato migliaia di download, prima di arenarsi in beghe aziendali.
Tornando in Europa, l’italiana My Foody si sta facendo spazio con una app che, semplicemente, offre i prodotti vicini alla scadenza di supermercati come Coop e Lidl. Mentre ASDA, la seconda catena di supermarket inglesi dopo Tesco, ha lanciato un’app per aiutare a combattere lo spreco, regolando meglio il flusso delle forniture. E Winnow, altra start-up londinese (a cui partecipa anche IKEA), ha creato un software che usa l’Intelligenza Artificiale per riconoscere il cibo sprecato dai ristoranti attraverso una specie di scanner applicato ai secchi della spazzatura delle cucine: lo chef butta via, l’algoritmo vede, soppesa, calcola. E dopo un po’ dice cosa comprare di meno, per evitare sprechi. «Con un risparmio dell’8-10% in media», calcolano i produttori.
Altre volte la tecnologia interviene molto prima che il cibo si avvicini al bidone della spazzatura. Un caso interessante è Cheetah – sì, come la scimmia di Tarzan –, app sviluppata da ricercatori dell’università olandese di Twente e appena testato in Ghana (dove lo spreco alimentare, secondo Food for Africa, tocca un iperbolico 45%). Qui gran parte dei problemi nascono subito, nel percorso che porta frutta e verdura dai produttori ai negozi: strade sconnesse, camion frigo scassati e intoppi vari fanno sì che parecchio cibo si rovini ancora prima di arrivare sulle bancarelle del mercato. Cheetah avvisa in tempo reale i camionisti sui problemi che potrebbero trovare sul percorso: traffico, ingorghi, frane – ma anche posti di blocco e rischio di assalti. Per ora, appunto, è in versione beta: la definitiva, da lanciare in altri Paesi dell’Africa Occidentale, è attesa per maggio.
Ma la lotta allo spreco via smartphone non è solo un business dove vincono tutti. Ci sono app che hanno altri obiettivi. Educare a comportamenti virtuosi, per esempio. L’italiana Ubo (Una buona occasione) spiega come conservare gli alimenti, come riutilizzare gli avanzi in cucina, come fare la lista della spesa in base alle stagioni… Fino alla lettura corretta delle scadenze, come quel “consumare preferibilmente entro” alla radice di tanti equivoci e sprechi.
Interessante anche Yo No Desperdicio (“io non spreco”), progetto sviluppato dalla ONG spagnola Prosalus: propone di «entrare a far parte di una rete antispreco, condividendo quello che non consumerai». Funziona così: ti iscrivi, offri sul web gli alimenti in eccesso – quelli che hai in frigo e hai capito che non riuscirai a mangiare – e aspetti che chi ha bisogno legga e ti contatti, per incontrarsi. Si crea unacommunity, insomma. Effetto collaterale tutt’altro che negativo del condividere un progetto che ha tanto di pratico quanto di ideale. Più o meno come Lastminute sotto casa, “startup innovativa a vocazione sociale” completamente made in Italy. In pratica, la stessa idea di Too Good To Go, ma destinata alle reti di quartiere: l’avviso che c’è roba da comprare a prezzi di saldo ti arriva direttamente dai negozi della zona.
Infine, le app che raddoppiano la motivazione ideale, aggiungendo alla lotta agli sprechi la chance di aiutare direttamente i poveri. Un esempio? Bring The Food, sviluppata dalla Fondazione Kessler assieme al Banco Alimentare (quello della Colletta che si tiene a novembre in tutti i supermercati italiani). Qui ci si rivolge a centri commerciali e negozi, che dichiarano online cosa sta per andare perduto e lo mettono a disposizione di onlus, mense e centri di assistenza. Dinamica che nel mondo anglosassone è attiva da tempo, con esempi tipo Food Cloud (usatissimo in Irlanda e Regno Unito: più di 3mila charities tra i clienti), o le statunitensi Food Rescue e Food Rescue Hero.
La più americana di tutte, però, ha un nome inconfondibilmente western: Food Cowboy. Si presenta sul web come lo strumento migliore per abbattere lo spreco king-size degli Stati Uniti (165 miliardi di dollari l’anno: il doppio di quanto si spende in food stamps, i buoni spesa per i poveri). Il metodo? «È il match.com dell’alimentare, funziona come le app di incontri», si legge nel sito. Insomma, fa incontrare offerta – il cibo in eccesso – e domanda – chi ha fame. Evitando il bidone della spazzatura.
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